Anche a Città di Castello (PG), sabato 28 gennaio 2017, è stato proiettato il film-documentario Il risveglio di un Gigante, vita di S. Veronica Giuliani, di Valeria Baldan e Giovanni Ziberna, realizzato da Sine Sole Cinema s.r.l. (Casa di produzione e distribuzione cinematografica. Gorizia – Friuli Venezia Giulia), per iniziativa dell’Associazione “Amici di Santa Veronica, Figli di Maria”. Desideravo partecipare; ho atteso la proiezione e, finalmente, l’ho visto. Le mie disposizioni personali erano del tutto positive: curioso quel tanto che basta, simpatizzavo per l’iniziativa e speravo di ristorarmi, di provare soddisfazione e gioia insieme a molti altri fedeli. Veronica appartiene particolarmente alla mia città, alla diocesi, al monastero delle Cappuccine di cui, da alcuni anni, sono cappellano. Inoltre, la sua esperienza e il pensiero di fede che eccellentemente ne deriva costituiscono da sempre l’oggetto proprio del mio studio che, nell’ermeneutica dei suoi scritti, ha trovato la palestra per una sempre più attenta trasmissione del senso pieno della Rivelazione di Dio, nella perenne attualizzazione che richiede.

LIVELLO ARTISTICO

Per quanto attiene l’uso del mezzo cinematografico, in generale, sono portato a comprendere le difficoltà che i registi incontrano nel disporre la sequenza ordinata e suggestiva delle immagini soprattutto quando, con grande originalità, tentano di rappresentare il mistero del rapporto dell’uomo con Dio e viceversa. Considerato l’obiettivo, di per sé impossibile, va detto del tutto serenamente che la sensibilità personale e l’accurata professionalità, talvolta, non bastano a raggiungere l’effetto desiderato. Inoltre, spesso, altre sono le attese e diversi sono i gusti degli spettatori, per cui la sintonia può non risultare immediata. Non è, dunque, da questo punto di vista che mi soffermo a considerare il film. La questione riguardante il livello artistico – peraltro, nel caso specifico, a mio parere, insufficiente – è importante, ma, propriamente, non costituisce l’oggetto delle presenti osservazioni. È, invece, sul taglio della narrazione e su alcuni aspetti particolari, di carattere ambientale, culturale, teologico e spirituale, che intendo soffermarmi.

COMPOSIZIONE DI LUOGO

Veronica ha vissuto cinquant’anni di stretta vita claustrale a Città di Castello, ma impressiona come nel film-documentario non ci sia una sola voce tifernate ammessa a parlare di lei! Abbondanti sono, invece, i riferimenti al Libano, dove opera l’Associazione “Amici di Santa Veronica, Figli di Maria”, e alla cittadina natale, Mercatello sul Metauro (PU), soprattutto per il rilievo della comunità religiosa delle Cappuccine ivi insediata, nella casa della Santa, già nel 1773. Si spiegano in questo modo i ripetuti interventi di Padre Elias Rahal, esorcista e responsabile in Libano del Movimento Sacerdotale Mariano, di Suor Marilena Chiara, clarissa cappuccina di Mercatello e di Padre Maurizio Pietrantoni, cappellano storico (sic!) dello stesso monastero. La composizione di luogo obbligava ad individuare sullo schermo anche il monastero di Città di Castello, il suo esterno e i molteplici ambiti interni: orto, chiesa, chiostro, corridoio, celle. Strutturalmente parlando, per quello che si vede, l’accoglienza delle sorelle Cappuccine risulta evidente, ma, mentre in questi luoghi altri parlano, la loro è una presenza assente che, nel suo mutismo, attesta una qualche neutralità che sa, al tempo stesso, di clausura e di voluta astensione. In particolare, il crocifisso di legno, che al tempo della Santa era esposto in infermeria e con il quale essa si intratteneva in affettuoso dialogo, costituisce lo sfondo di molte riprese e, indirettamente, per l’attenzione che abitualmente gli è riservata, attesta la generosa disponibilità del monastero.
Comunque sia, non si può parlare di Veronica astraendo dalla sua comunità, facendo finta che non sia esistita o che non esista. Invece, eccettuati alcuni fugaci accenni che, di per sé, non potevano essere evitati, per il taglio in cui viene presentata, un eventuale spettatore che non abbia conosciuto la Santa in altra maniera, potrebbe facilmente scambiarla per un’eremita, quando, invece, eremita non fu. D’altra parte, anche il suo essere «sola col solo Iddio» , se da un lato comporta gioia unitiva e abbandono al «tutto» che riempie e inonda la sua vita, dall’altro – come testimonia la parabola stessa del suo esistere e del suo operare – non la distrae affatto dall’ordinaria attenzione e dalla concretezza della vita comunitaria. Alla verifica dei fatti, la decantata solitudine del suo rapporto mistico-apostolico con Dio e la conseguente, pressoché completa, assenza di riferimento alla comunità del tempo sono elementi del tutto inconsistenti. Farle affermare – come avviene – «Io mi offro perché i peccatori mi inchiodino al vostro posto. Io sarò il vostro apostolo», astraendo dal tessuto ecclesiale ed anche da quello propriamente cristologico, non contribuisce ad evidenziare la qualità della sua esperienza mistica ma isola Veronica in un eroismo solitario che non le appartiene, almeno nel senso rivendicato.

CARATTERE IDEOLOGICO – TRIONFALISTA

L’impostazione del film-documentario, purtroppo, obbedisce alla logica dell’autocelebrazione. L’Associazione, sembra addirittura prendere a pretesto santa Veronica per celebrare se stessa e le proprie tendenze nostalgiche e restaurazioniste. Il canovaccio dell’esposizione tematica è, infatti, un opuscolo redatto anni or sono dal suo attuale Presidente, giunto, con qualche leggera revisione alla seconda edizione, adottato «quale strumento principale di prima conoscenza» . Ne scaturisce un’operazione ideologica, a collage, per la quale il racconto, di per sé lineare, com’è nella natura della biografia, assume, invece, i connotati di un’esposizione predefinita in senso assiomatico, difensivo e apologetico, con ritorni tematici rigidi e non sempre appropriati. Ad esempio, Padre Elias Rahal afferma che «il cielo ci ha dato santa Veronica per controbattere gli insegnamenti errati […] e per confermare i dogmi della fede cristiana che la Chiesa cattolica ha insegnato lungo i secoli». Sono parole che non valorizzano la Santa, ma ne propongono l’uso, l’utilizzo, come in un prontuario, per di più palesemente inadeguato. Meraviglia, perciò, che valenti autori, come Renzo Lavatori e Monique Courbat, forse inconsapevolmente, abbiano contribuito alla trasmissione di un messaggio che, nell’insieme, eccede e peggiora il contenuto del loro contributo. Lo stesso Fra Emanuele, Presidente dell’Associazione “Amici di Santa Veronica, Figli di Maria”, posizionato nel chiostro del monastero delle Cappuccine di Città di Castello, come se fosse un loro portavoce, interviene ripetutamente con enfasi per proporre un conteggio miracolistico degli avvenimenti straordinari e dei fenomeni mistici riguardanti la Santa come se questo fosse la misura della sua santità.
Anche un aspetto non solo positivo ma, di per sé, eccellente del Diario come quello del cuore che plasticamente traduce la vita nuova del Vangelo abbracciata nella grazia di Cristo, sulle sue labbra risulta espressamente inadeguato. Veronica ne parla facendo riferimento alla propria conversione intesa come sostituzione del proprio cuore (di pietra!) con quello di Cristo e di Maria in un incendio di amore che di tre cuori arriva a formarne uno solo. Per lei questo vortice rappresenta ed è realmente l’apice dell’unione mistica. Invece, Fra Emanuele sviluppa la tematica in maniera assolutamente letterale, banalizzando il linguaggio mistico nella sua versione femminile come se fosse la descrizione di un avvenimento di cronaca quotidiana: «certe volte il suo cuore le era tolto dal petto per essere purificato; realmente tolto, non c’era più cuore. Altre volte, ha due cuori nel petto, il suo e quello di Gesù, il primo batte normalmente, il secondo gli solleva le costole; lo sentono le sorelle da lontano. Per refrigerio una volta gli (sic!) immergono le mani nell’acqua di un pozzo. Incredibile: l’acqua inizia subito a bollire. Questo fuoco che bruciava nel Sacro Cuore di Gesù […] questa fiamma è vera; è la fiamma che arde nel cuore di Nostro Signore per la salvezza dei peccatori». Materializzare la simbologia, nella sua eccedenza di significato umano, spirituale, biblico e teologico, vuol dire tradirla, presumere di renderla maggiormente efficace ed, in realtà, neutralizzarla, banalizzarla, ridurla all’insignificanza sotto ogni punto di vista.

DECLAMAZIONI INOPPORTUNE

Inoltre, le scritte dell’anteprima del film, eccezion fatta per quella sommariamente riferita a Padre Lazaro Iriarte , contengono dichiarazioni apodittiche e trionfalistiche che, per quanto appartenenti a eminenti personaggi del passato, – dispiace dirlo – attualmente risultano del tutto inappropriate. È tipico dei santi e di Veronica in particolare, ritenersi povera cosa di fronte a Dio. La magnificenza dei suoi benefici lascia sempre trasparire i limiti angusti dell’umana corrispondenza e questa coscienza, là dove esiste l’autentico progresso spirituale, non tende a scomparire ma, addirittura s’intensifica. Nel nostro caso, la consapevolezza originaria è tale che va salvaguardata anche successivamente, per cui riferirsi oggi a Pio VII per asserire che santa Veronica «è un luminare tanto grande di santità che basterebbe da solo a illustrare la Chiesa a disprezzo della irrisione e della calunnia della più superba e mordace filosofia degli increduli», non è proprio un esempio di fraterna attenzione per chi non condivide il dono della fede. Citare il Beato Pio IX, per il quale santa Veronica «non è una santa, ma una gigante di santità», e scomodare il Card. Pietro Palazzini per riportare l’opinione di Papa Leone XIII secondo il quale «è stata arricchita talmente di grazie straordinarie che solo la Madre di Dio ne fu più ornata», significa non riconoscere che i santi, proprio perché tali, non sono in concorrenza tra loro. D’altra parte, introdurre un criterio quantitativo di maggiore o minore santità, in assenza dello strumento di verifica, risulta oltre che inaccertabile, assolutamente insensato. Infatti, l’originalità di ogni santo è sinonimo di grazia sovrabbondante e di smisurata ricchezza e vitalità nell’adesione al progetto di Dio svelato in Cristo, che empiricamente non è misurabile. Analoga osservazione merita l’asserzione esaltata e datata di M. Dausse, per il quale «S. Veronica è il più sublime e necessario soggetto di studio che si sia prodotto dopo il vangelo». Altrettanto priva di senso è l’affermazione, attribuita al Card. Pietro Palazzini, per la quale «la missione di santa Veronica deve ancora incominciare nella Chiesa». Al di là della retorica, non si vede come, trattandosi di una donna del 1700, tale missione non sia già da tempo iniziata e debba soltanto poter continuare e, forse, pure approfondirsi, anche, però, attraverso una lettura che, senza nostalgie, la sappia adeguatamente collocare nel tempo presente.

LINGUAGGIO INADEGUATO

Invece, i toni e i contenuti del racconto sono sontuosi, altisonanti e per niente in linea con il sentire ecclesiale che progredisce nel corso del tempo. Ad esempio, Padre Costanzo Cargnoni, già Presidente dell’Associazione “Amici di Santa Veronica, Figli di Maria”, definisce gli scritti del Diario «ispirati» e altri personaggi intervengono nel ricordare che una considerevole parte di essi fu scritta da Veronica sotto «dettatura» di Maria Santissima, tanto che molti passi sono redatti non in prima, ma in seconda persona singolare. L’«io» di chi scrive diventa «tu» perché è Maria a ricordarle e dettarle quel che ella aveva provato nel suo rapporto indicibile con Dio. Fra Emanuele arriva addirittura a dire che nel Diario troviamo «sette anni di cose dettate dalla bocca della Madonna», la quale avrebbe anche preso il posto dell’Abbadessa nel dirigere il monastero. Invece, l’artifizio letterario, senza essere assunto nella sua materialità, serve ad indicare, anche a livello psicologico, la piena disponibilità di Veronica a lasciarsi guidare da Maria, sia sotto l’aspetto personale che nella guida della comunità. Vita concreta, invocazione, abbandono fiducioso e serenità coincidono nella percezione del sollievo offerto dal volto materno di Maria che, a sua volta, indirizza verso quello del Figlio suo. Per di più, va considerato che in ambito cattolico il concetto di ispirazione è riservato ad indicare la qualità divina della testimonianza biblica, peraltro al tempo stesso interamente umana. Inoltre, l’esempio della dettatura è servito a lungo per tentare di spiegare come la Sacra Scrittura possa essere contemporaneamente opera di Dio e dell’uomo. Tuttavia, immaginare che Dio – e nel nostro caso Maria Santissima – detti a colui o colei che semplicemente scrive, senza ulteriori precisazioni, significa assumere come appropriata un’immagine estremamente debole, che, se da un lato sembra esprimere bene l’operato di Dio in quanto autore principale, dall’altro si mostra del tutto inadeguata a garantire la libertà e la genialità dell’essere umano in un costruttivo rapporto di accoglienza e di ubbidienza intelligente. La stessa cautela e il medesimo equilibrio dovevano essere calibrati nell’applicare a Maria Santissima due titoli carichi di complessità polemica come Mediatrice di tutte le grazie e Corredentrice, cosa che, invece, Padre Costanzo Cargnoni si guarda bene dal fare. In particolare, l’insistenza su quest’ultimo aspetto non coglie e tantomeno trasmette correttamente la peculiarità della cooperazione umana di Maria in dipendenza dalla cooperazione divina dello Spirito Santo al mistero della nostra redenzione.
D’altra parte, la questione non può essere sminuita relegandola tra le note tecniche del linguaggio teologico, perché il film-documentario non è rivolto soltanto o in primo luogo agli esperti del settore. È dato, invece, in pasto all’opinione pubblica in quanto tale, ovvero a tutti coloro che non hanno una preparazione specifica. Il destinatario, cioè, è il più vario possibile, indeterminato, indifferenziato; è il popolo, con i suoi dubbi e le sue certezze, con i suoi slanci e con le sue debolezze, con la sua preparazione e il suo analfabetismo, anche religioso. D’altro canto, è presumibile che spettatori siano principalmente i credenti, i simpatizzanti, i devoti, che è doveroso rispettare, introdurre e accompagnare in una crescita di fede, speranza e carità che, sapientemente, dalla santa (Veronica) possa sempre più centrarsi sul Santo (Cristo) e che dagli scritti del Diario tragga ispirazione per accogliere sempre meglio, in senso pieno, l’unica Parola che salva: quella del Vangelo. C’è sempre «un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica» ed una conseguente responsabilità comunicativa che impegna la correttezza espressiva, il rispetto dell’interlocutore e l’autentico progresso della vita e della comprensione cristiana.

MIRACOLISMO

Invece, il gusto del film-documentario è antiquato, a livello lessicale, ma anche per quanto attiene il sentimento devozionale, con un’insistenza impropria su aspetti che evidenziano il culto del meraviglioso, dell’eccezionale e dello straordinario – lo stesso Diario è definito un miracolo! – e non rendono ragione del valore di Veronica sul piano ordinario della vita cristiana. È vero che quasi al termine del film, alcuni elementi di normalità quotidiana vengono rammentati in rapida successione. Equilibrio, carità, umiltà, servizio, disponibilità, capacità di governo, virtù cardinali e teologali, sono effettivamente menzionati, ma l’inclinazione prevalente del pensiero e delle emozioni ivi racchiuse è un’altra, diametralmente opposta. Va ricordato, perciò, che l’eccezionale molteplicità dei fenomeni mistici corporali ed intellettuali (spirituali) presenti nella vicenda santa Veronica Giuliani rappresenta «l’elemento esterno, tangibile, fenomenologico, in un certo senso accessorio e periferico di un’esperienza che trova altrove il suo centro qualificante, ma che, purtuttavia, si riverbera al di fuori oggettivando e prolungando la sua forza interiore» . Indulgere sul miracolismo dei fenomeni mistici e farlo intenzionalmente, dopo che studi seriamente condotti hanno dimostrato, senz’ombra di dubbio, come questo sia soltanto la periferia della sua esperienza, suscita un effetto contrario a quello desiderato: l’inimitabile, infatti, non potrà mai essere imitato! La vita dei santi – in questo caso di Veronica – invece, è sempre via autentica per il nostro incontro con il Signore.

NUZIALITÀ

Lo stesso si può dire per la smodata bramosia del soffrire collocata correttamente in tenera età, ma non precisata nel suo placarsi, per lo sviluppo di una comprensione di fede che condurrà Veronica a ritenere le esuberanti penitenze corporali del passato vere e proprie «pazzie» che le «ha fatto fare l’amore fra le medesime pene» . Penitenze fisiche, mortificazioni volontarie, desiderio di patire, disciplina, cilicio, «veste ricamata» , digiuni a pane e acqua, devozione della Santissima Passione, costituiscono la materializzazione dell’eredità della madre che, prima di morire l’aveva collocata «nella piaga del costato di Gesù Cristo Crocifisso» e, a loro modo, rappresentano l’allenamento quotidiano al dono di sé. D’altra parte, però, tutti questi elementi non esprimono l’essenziale dell’esperienza di Veronica. Infatti, il suo soffrire è tutto improntato all’amore e si nutre di nuzialità vissuta nell’unione con l’unico Sposo, quello divino e crocifisso, che merita un tale appellativo. Avvertirsi amata e amare con tutta se stessa Colui che non ha esitato ad affrontare l’ignominia della croce per amore dell’umanità, debellando in tale maniera l’effetto mortale dei nostri peccati, comporta non solo una partecipazione alle sue sofferenze, ma una vera e propria identificazione – fisica, mentale, sentimentale, motivazionale – in una totalità che include i presupposti, il percorso, le finalità e la stessa efficacia redentiva del suo donarsi e del suo soffrire. Nel dono delle stimmate, Veronica raggiunge l’apice del proprio rapporto d’amore che non è chiuso in se stesso, ma è dilatato secondo l’ampiezza dell’offerta sacrificale che il Figlio offre al Padre per la salvezza dell’umanità intera e di ogni singola persona in particolare. Il sacrificio di Cristo è unico e Veronica – da creatura, che ama! – chiede solo di potersi inserire in esso, nell’abbraccio, nel bacio, nello slancio, nella gioia e nel dolore che caratterizza l’autentico rapporto sponsale. Per questo, risulta errato attribuirle il desiderio di «completare quello che manca alla passione di Cristo» (Col 1,24), come se a questa potesse mancare qualcosa che dovrebbe essere aggiunto, senza precisare – alla maniera dell’apostolo Paolo – che il dare compimento avviene semplicemente nella carne del discepolo. In questo senso, la stessa categoria di «mezzana», abbondantemente presente nel vocabolario veronichiano, doveva anzitutto essere spiegata facendo riferimento al linguaggio umbro-marchigiano del tempo. La sorella che sta in mezzo per età tra la maggiore e l’ultima nata – la mezzana, appunto – esibisce il rapporto fraterno che si imbastisce tra Veronica (la Chiesa), Gesù crocifisso-redentore e l’umanità peccatrice, nella partecipazione dei meriti dell’Uno e dei peccati dell’altra. Nella linea della nuzialità vissuta, la mezzana (Veronica, la Chiesa) aderisce a Cristo nell’atto unico di offrirsi al Padre per la nostra salvezza. Una volta operati questi passaggi, con cautela, la mezzana può essere detta «mediatrice», ma precisando che tale mediazione non fa assolutamente ombra all’unica effettivamente salvifica: quella di Cristo Redentore, nella quale, umilmente, Veronica chiede di potersi inserire. Questa comprensione non dipende dall’interprete ma è interna al Diario, tanto che Veronica può dire: «per avere Iddio per me, per sentirmi in Dio, per essere io fattura sua, per avermi Egli dotato di tutti i suoi beni, e per avermi arricchito di tutti i suoi meriti […] non gli dono niente, ma donandogli me con tutti i doni suoi, con tutti i tesori che mi ha donato e mi ha arricchita e dotata, vengo a fare il dono di Sé a Se stesso» . «La mia passione – le ricorda Gesù – i miei meriti e tutto il patire che ho fatto nel corso dei 33 anni, io te li consegno, acciò tu operi colle mie opere, patisca col mio patire» . «Io ti voglio tutta trasformata in me: la mia passione, i miei meriti e tutto il patire, che ho fatto nel corso di 33 anni, io te lo consegno, acciò tu operi colle mie opere, patisca col mio patire, operante colle mie opere. Fa di essere, in tutto e per tutto, conforme che io voglio. Spogliati da tutto, ed in tutto [abbi] purità di cuore, d’intenzione, con essere, in tutto, crocifissa con me».

ESPIAZIONE

Se quelli indicati sono i termini della questione, è più facile comprendere come la stessa categoria di espiazione vada ricontestualizzata e riconsiderata senza ritenere in assoluto che oggi sia la più adatta ad esprimere la peculiarità della vocazione e della missione di Veronica. Nel passato, anche recente, l’offerta della Santa è stata spesso interpretata nel suo prevalente e pressoché esclusivo carattere espiativo. Il Cardinale Pietro Palazzini è arrivato a definirla «maestra, per eccellenza, della dottrina dell’espiazione» . Lo stesso Bollettino del Santuario di Santa Veronica Giuliani in Città di Castello per un breve periodo – 6 numeri in tutto, dal n.2/1980 al n.1/1982 – ha recato come sottotitolo l’espressione «mistica dell’espiazione». Anche il film-documentario si muove in questa linea con alcuni commenti incrociati di Padre Costanzo Cargnoni e di mons. Renzo Lavatori assistiti da una retrostante voce narrante che fa risuonare un contenuto certamente non condivisibile: «sarò io la vostra Veronica, la riparatrice e la consolatrice; io do il mio sangue per risparmiare il vostro. Con Voi e dietro a Voi voglio soddisfare l’amore creatore; di più voglio che tutte le spade che trapassarono il cuore di Maria Corredentrice trapassino il mio cuore». La perplessità concerne la natura stessa delle espressioni e l’uso assolutamente improprio che ne viene fatto. Per rendercene conto, tralasciando la questione di Maria Corredentrice cui ho già accennato, va ricordato che, a partire dalla stessa Sacra Scrittura, molteplici sono le categorie con le quali si è tentato di esprimere l’effetto salvifico del sacrificio redentore. Se è vero, infatti, che Gesù ci salva con tutto Sé stesso, con la sua vita, la sua passione, morte e risurrezione, è altrettanto chiaro che il momento della donazione suprema è quello del Calvario. La sua permanente efficacia salvifica ci è consegnata per la potenza dello Spirito nell’evento della Risurrezione ma, almeno in occidente, in epoca anche recente, si è preferito non considerare l’unità del mistero pasquale e affermare sinteticamente che è per il sangue di Cristo che noi siamo salvati (cf. 1Pt 1,19; Ef 2,13). Quando poi si è trattato di spiegare come ciò potesse accadere, molteplici sono stati i termini impiegati e ognuno di essi contiene ed esprime i pregi e i limiti della sua specifica angolatura culturale, filosofica, teologica, morale o giuridica che sia. Verbi come redimere, riscattare, meritare, riparare, sacrificare, soddisfare, sostituire, compensare, espiare, da un lato, sembrano chiarire ma, dall’altro, introducono nuovi interrogativi che non possono essere elusi. In particolare, il linguaggio di espiazione, riferito alla sofferenza e alla morte umana del Figlio di Dio incarnato, registra il conflitto tra l’uomo e Dio introdotto dal peccato, mette a nudo la doverosa compensazione che ne dovrebbe discendere e afferma l’avvenuta riconciliazione non per assunzione di responsabilità diretta da parte del colpevole, ma nello scambio della pena che è scontata da Colui che, innocente, espia. Il ragionamento sembra lineare, ma mantiene una densa zona d’ombra, soprattutto se ci si abbandona al riferimento commerciale, al moralismo e al giuridicismo. Forse, che Dio è adirato e Gesù soffre e muore, come vittima, per placarlo? A prevalere è, dunque, la giustizia vendicativa e non la misericordia divina? La sofferenza umana del Figlio di Dio è necessaria? Lo sdegno del Padre contro l’umanità peccatrice e l’espiazione del Figlio come possono conciliarsi con la comunione trinitaria? Non è forse vero che quello del Figlio è un oneroso atto di amore che trova concorde e partecipe tutta la Santissima Trinità? Sono nodi che invece di sciogliersi, sembrano diventare più intricati quando la stessa categoria di espiazione è applicata non soltanto a Cristo Redentore ma anche al discepolo, maschile o femminile che sia, e, nella fattispecie, a santa Veronica. Se, però, ricordiamo, in questo contesto, quanto esposto poco sopra a proposito della nuzialità, almeno cinque aspetti si schiuderanno a nuova chiarezza. Il primo è che, nella sua qualità di sposa, Veronica non desidera godere o soffrire qualcosa in proprio, ma partecipare della vita e della morte di Gesù, suo Sposo e, cioè, delle motivazioni e dell’intensità che ne guidarono le scelte e il dono d’amore. Il secondo è immediatamente conseguente: aderendo allo Sposo divino, in primo piano non si pone l’apporto della creatura – pur importante sul piano della corrispondenza – ma l’offerta salvifica che Gesù, una volta per sempre, ha fatto di se stesso al Padre, per la redenzione di tutti e di ciascuno. Il terzo è l’affermazione perentoria, che solca tutto il Diario, per la quale incarnazione e redenzione sono opera onerosa di amore e soltanto di amore: il Padre invia il Figlio; si compiace di Lui per l’adesione costante ed estrema alla sua volontà, ma non gode per la sofferenza umana che gli deriva da tale ubbidienza. Il quarto aspetto di valore è dato dal procedere di un laborioso progresso esperienziale per il quale a Veronica è dato di comprendere come, avvertendole in sé, Gesù abbia santificato tutte le umane sofferenze, modificando profondamente, cambiando essenzialmente, il loro significato. Anche il patire «è stato ricomprato […] col sangue di Gesù Crocifisso» e, da quel momento, il dolore umano, per essere decifrato, non può che essere compreso in un orizzonte cristologico ed ecclesiale, non già come punizione, quanto, invece, come collaborazione all’opera di salvezza. Il quinto elemento, infine, mostra come l’evento Gesù Cristo corrisponda in pienezza alle corde più sensibili del cuore umano: «Su, su, creature tutte, venite meco a cercare Gesù. Egli è un bene infinito. Se volete tesori, Gesù è vero tesoro immenso; se volete ricchezze, Gesù è vera ricchezza; se bramate gusti e piaceri, Gesù è il sommo gusto e contento; in una parola, se bramate ogni bene, non lasciate Gesù, perché è tutto, è sommo ed infinito bene» ; «Venite, o peccatori e peccatrici, venite a Gesù. Se volete tesori, Egli ne ha infiniti; se volete contenti, Egli è la stessa contentezza; se volete piaceri Egli è tutto amore e tutto carità; se volete la pace, venite a Gesù; se volete fortezza, venite a Gesù» . È vero che il peccato ferisce Dio, ma prima di colpire Lui, snatura l’uomo, lo priva della sua gloria, della sua immagine. Gesù Redentore – e il discepolo in Lui – non si limita ad espiare o a rendere a Dio l’onore che gli è dovuto; rinnova l’uomo, lo rende nuova creatura, realizza la nuova creazione: «Oh! quanto è grande questo benefizio della Redenzione! Rinchiude in sé tutti i benefizi che Iddio ha fatti dal primo istante che creò il mondo, sino a che durerà. Tutti i beni, tutte le grazie, tutti i doni, qualsisia cosa, cavandone il peccato, tutto è frutto del beneficio della Creazione e della Redenzione» .
Come si può constatare, il tempo non è trascorso invano; ha permesso che gli studi si approfondissero e che la questione potesse decantarsi, facilitando un’ermeneutica più attenta ai significati e alla storia che permette ora di decifrare e correggere alcune interpretazioni improprie che di Veronica sono state date in passato e che si vorrebbe fossero riproposte oggi. Come sempre le categorie culturali e quelle ecclesiali vanno di pari passo.

LA POSSIBILITÀ DEL FALLIMENTO ETERNO

Considerando poi che nel Credo cristiano tutto è connesso e correlato, la narrazione rappresentata nel film-documentario soffre terribilmente nelle parti in cui tratta di demonio, giudizio, inferno e purgatorio. L’assenza non solo di una corretta ermeneutica, ma dell’esigenza stessa di praticarla, determina un tipo di interpretazione inadeguata in se stessa, – sostanzialmente fondamentalista! – ancorata agli schemi concettuali del passato e del tutto incapace di proporsi come strumento ausiliare dell’attuale evangelizzazione. La difficoltà riguarda tutta la trasposizione significante della professione di fede, ma si evidenzia soprattutto nell’affrontare il racconto escatologico di cui, a seguire, segnalo dei rapidi cenni. Al giudizio personale si fa riferimento, in senso autobiografico, per evidenziare l’enormità del danno («bruttezza») arrecato dalla colpa e la bellezza del perdono ricevuto, ma senza entrare effettivamente nel merito della questione, che – se affrontata – avrebbe richiesto molteplici puntualizzazioni di ordine storico e teologico; satanasso , invece, imperversa, inganna, attacca direttamente e suscita diffidenza per la rabbia che esprime e il terrore che infonde ma, per quanto s’impunti, spaventa, senza ottenere vittoria. C’è da chiedersi se, sullo schermo, poteva essere raffigurato in maniera più consona e meno terrificante, purificando molti elementi storico-culturali dalle rappresentazioni standard, ma sostanzialmente, più o meno camuffato, svolge il suo ruolo di oppositore; il purgatorio è infelicemente rappresentato come un inferno in miniatura con le anime incorporate nel fuoco che soffrono pene atroci, addirittura superiori a quelle dei martiri, mentre il loro dolore, purificazione dell’Amore, impastato di ardente speranza teologale, è essenzialmente diverso da quello dei dannati; il relativo ministero espiativo della santa obbedisce al desiderio di scontare in sé le pene dei defunti purganti; è un patire al loro posto, un esporsi a sofferenze indicibili come se Dio lo pretendesse; l’inferno, infine, è correttamente presentato come tremenda possibilità di fallimento eterno della vita umana ma, al di là di questo aspetto, forme espressive e commenti risultano impropri ed errati. Comincia Padre Elias Rahal annotando che santa Veronica conobbe non solo il Paradiso, ma anche l’inferno, per poi aggiungere, con sufficienza, che ella conferma la dottrina cattolica circa la sua esistenza semplicemente per il fatto che lo visitò, trovandovi con Giuda, anche molti religiosi e prelati che con il loro insegnamento errato hanno tradito Cristo e causato la dannazione eterna di molte anime. Su queste visite torna anche fra Emanuele dichiarando che vi fu trasportata sette volte. Di questo passo, le visite e la conoscenza che ne deriva sfociano nel tentativo di localizzazione che si fa descrizione. Le immagini, il magma, il fumo denso, i ruggiti, i tuoni, i lampi, i suoni, gli odori, il clamore e il fetore, le maledizioni orribili, l’intreccio ripugnante, satanico appunto, di rettili, anime e demoni con catene di fuoco, nel fondo dell’abisso e nell’orrore di satana sovrano assoluto «per sempre, per tutta l’eternità», convergono nella visualizzazione sonora più subdola e irriverente che non si limita ad evidenziare un reale pericolo, ma lo registra come già avvenuto: «… e le anime cadevano come pioggia… come pioggia …». Un film-documentario come questo che, per sua natura, avrebbe dovuto aiutare a dissipare le ambiguità con una interpretazione adeguata, non doveva permettersi conclusioni così nette e perentorie. Altro è affermare la possibilità, non voluta da Dio, del fallimento eterno dell’essere umano accecato dalla presunzione nell’esercizio egoistico della sua sovrana libertà; altro è dichiararne l’effettiva attuazione per qualcuno in particolare o addirittura per molti o per innumerevoli, come nel caso indicato.

ESPERIENZA E RIFLESSA ESPRESSIONE

Un’ulteriore considerazione riguarda la valutazione poco equilibrata del Diario e della sua teologia. Stando a Padre Costanzo Cargnoni, esso è un miracolo che Dio ha permesso per nostro beneficio, un unicum nella storia della spiritualità, per vastità e profondità. Il suo carattere prodigioso emerge a partire dalle precarie condizioni ambientali in cui è stato redatto, dall’anomalia del dover raccontare la propria esperienza per obbedienza, dai disturbi introdotti dal demonio. Nonostante queste difficoltà, la penna di Veronica produce pagine di straordinaria bellezza, scritte in estasi, con linguaggio ispirato, che trasmettono un’esperienza di paradiso (Dio) travolgente e traboccante. Condivido il senso di quest’ultima espressione; già ho obiettato circa la parola ispirata; non mi risulta che nello stato di estasi Veronica si permettesse di scrivere. Il fatto veramente grave, però, è che nel corso del film-documentario, lo stesso Padre Costanzo prima afferma correttamente che Veronica non ha inteso elaborare una dottrina, ma raccontare un’esperienza e dopo si lascia andare a considerazioni di tipo completamente opposto per le quali la sua teologia è limpida, pura, perfetta sotto tutti gli aspetti, sia per quanto riguarda Dio, Uno e Trino, sia per quanto concerne le realtà future (morte, giudizio, inferno, purgatorio, paradiso), sia in riferimento ad altri trattati come quelli di Cristologia e sui Sacramenti. Eccellente, a suo parere, è soprattutto la Mariologia, definita da Padre Elias Rahal «altissima, di primo grado». In questo caso, il desiderio di esaltare il valore del pensiero della santa conduce l’autore a concludere in maniera sontuosa e assolutamente non condivisibile. Veronica non ha scritto dei trattati e dal suo resoconto coatto non è immediatamente ricavabile una teologia, tantomeno distribuita per discipline. La sua esperienza è veramente mirabile, ma il pensiero che ne deriva e che tenta di esprimerla deve essere ricostruito a partire dalla confidenza con i suoi scritti e dall’attenzione nel seguirne le varianti e gli sviluppi. Determinante nell’evidenziarne la consistenza e nel decifrarne lo spessore, positivo o negativo che sia, è la compresenza, in chi l’accosta, dei due orizzonti di riferimento, quello antico e quello a noi contemporaneo, nell’abile discernimento, al tempo stesso culturale, spirituale e teologico, dell’originalità e dell’abituale, del consueto – almeno per quel tempo – e del geniale. Predisporre gli strumenti per operare questa interpretazione e impiegarli, con simpatia e sensibilità, ma senza condizionamenti e apologie, è il servizio culturale ed ecclesiale che ci viene richiesto.

CONCLUSIONE

Il film-documentario si conclude ricordando che in anni ormai lontani (1980) per santa Veronica Giuliani è stato chiesto il riconoscimento del titolo di Dottore della Chiesa. La causa – si aggiunge – dovrebbe essere ulteriormente ripresa e perseguita fino al raggiungimento del fine. Il desiderio appare nobile e legittimo, ma chi ha avuto la pazienza di seguire la proiezione fino al termine non può che stupirsi “…per la contradizion che nol consente” . Operazioni come questa non avvicinano, ma allontanano il raggiungimento dell’obiettivo e se è vero che santa Veronica è ancora poco conosciuta, almeno che lo sia in maniera corretta.

Don Romano Piccinelli – Direttore Centro Studi “Santa Veronica Giuliani”