Altre formule di autorivelazione del Signore

1. Vediamo, a partire dalle formule di autorivelazione del Signore, tipiche del Vangelo di Giovanni, come si presenti Gesù a santa Veronica. La particolarità di queste locuzioni è che l’«Io sono» divino è qualificato da un predicato. Procederemo perciò come segue: dopo aver considerato brevemente le formule che compaiono nel quarto Vangelo, ci fermeremo su quelle che ricorrono nel Diario, specialmente su quelle che sono peculiari della Santa. Da ultimo abbozzeremo qualche conclusione sul suo modo di accostarsi alla Sacra Scrittura e sulla sua percezione del mistero del Signore.

2. Le cosiddette formule di autorivelazione del Signore con predicato che compaiono in Giovanni ci sono familiari: Le elenchiamo semplicemente:

― Io sono il pane della vita (Gv 6:35.48);
― Io sono il pane (vivente) disceso dal cielo (Gv 6:41.51);
― Io sono la luce del mondo (Gv 8:12, cfr. 9:5);
― Io sono la porta (delle pecore) (Gv 10:7.9);
― Io sono il buon pastore (Gv 10:11.14);
― Io sono la resurrezione e la vita (Gv 11:25);
― Io sono la via e la verità e la vita (Gv 14:6);
― Io sono la vera vite (Gv 15:1-5);

Se ora andassimo a rileggere i singoli passi, per collocare ognuna di queste formule nel suo contesto, noteremmo senz’altro che ciascuna di queste affermazioni è molto solenne. Gesù intende con esse qualificarsi in maniera autorevole e, per così dire, esclusiva, come mostra la presenza dell’articolo prima del predicato («Io sono il pane», non un pane qualunque; «la luce», non una qualsiasi, e così via).
In particolare Egli vuole presentarsi come il rivelatore e il portatore unico di quella salvezza che nell’Antico Testamento era stata promessa a più riprese attraverso le immagini e i simboli che ora riferisce a se stesso. Non a caso immagini e simboli ( pane, luce, porta, pastore, via e vite) sono sempre messi in relazione da Gesù con la resurrezione e la vita da una parte, e con la fede dei credenti dall’altra.
Immagini e simboli devono servire per introdurre gli ascoltatori del Signore al mistero della vita che Egli stesso è e che Egli dona a chi ha fede in lui.
Notiamo anche un fatto. Nell’Antico Testamento Dio non dice mai di sé «Io sono il pane» o «Io sono la vite». Abbiamo visto che o si qualifica con un nome proprio o soltanto con «Io sono», e che Giovanni mette quest’ultima formula in bocca a Gesù come un’affermazione di divinità. Nel momento in cui però questo «Io sono» viene precisato da un altro termine, e in particolare da un termine che per tradizione indica una salvezza promessa, vorrà dire che si vuol identificare Gesù specialmente, ovvero che si vuol mettere a fuoco chi Egli sia e che cosa sia venuto a fare. Questo secondo gruppo di formule perciò lascia come sullo sfondo la divinità e si preoccupa di mostrare l’essere di Gesù e l’opera che Egli compie. In particolare esse rivelano come l’«Io sono» eterno si manifesti in un «Io sono» storico; come Gesù sia in strettissima relazione col Padre, ― e quindi il suo essere Figlio; e, infine, grazie alle immagini che han tutte relazione coi Sacramenti, come questo «Io sono» perduri a essere con gli uomini, a salvezza di tutti coloro che credono in Lui.

3. Dopo questa rapidissima serie di considerazioni sulle formule giovannee, vediamo se e come esse siano passate nel patrimonio spirituale di santa Veronica, secondo la testimonianza del Diario.
Diremo subito che le citazioni dirette sono appena due. La prima è in latino ed è inequivocabile: Ego sum pastor bonus (Gv 10:11.14); la Santa ci dice (I, 418-421) di aver fatto orazione su questa parola in questo dì ed anche tutta la notte. Abbiamo qui dunque una testimonianza preziosa: Veronica sapeva custodire a lungo una sola frase, ripetendola fra sé e ripensandola. Ne dà poi un’interessante esegesi attraverso una visione che le mostra come siano poche le anime-pecore del Signore che vogliono seguirlo, al punto che Egli poche ne conosceva per sue vere pecore (cfr. Gv 10:14b); parrebbe quindi di capire che la Santa si è fermata su Gv 10:14 e sulla necessità che la reciproca conoscenza tra Pastore e pecore sia inverata da una vera sequela da parte di queste, più che sul dono di cui parla il testo biblico. Nella visione dei fatti, il Signore cerca invano di radunare le pecore che continuano a sfuggirgli, finché Veronica va, grazie alla Parola meditata, al cuore della propria vocazione:

Mio Dio, io voglio seguitarvi per tutti questi che ora fuggono da Voi (I, 421).

La seconda citazione presenta qualche problema. Veronica conosceva certamente la formula di Gv 14:6 «Io sono la via e la verità e la vita», la cita infatti una sola volta per intero, ma non in forma diretta:

La santa umiltà fa trovare modo di fare in tutto la volontà di Dio e, facendo questa, non è poco vantaggio per l’anima; perché unendosi tutta alla divina volontà, si imprime in lei la vera via verità e vita che è Iddio (I, 908).

Come si vede, in questo caso la formula giovannea è come appiattita in una definizione impersonale. La Santa ne ha colto il senso, certamente, ma è probabile che il non poter accedere direttamente ai testi le abbia impedito di gustarne la forza che essa ha alla prima persona. Per altro, deve aver meditato su questo versetto, comunque lo conoscesse, perché parla altrove della vera via e verità che è Gesù Cristo (II, 871), dice anzi che Esso era la stessa verità (II, 459), Iddio è verità infallibile (III, 1129), è la vera vita (III, 26). Solo in un caso la formula è di autorivelazione e merita di essere citata nel suo contesto. Durante un raccoglimento notturno, Veronica ha una visione del Crocifisso. Al solito cerca di rifiutarla, ma il Signore interviene dicendo:

Non temere, non sono il demonio, ma Gesù; e vengo per ammaestrarti in molte cose. Io sono la stessa verità; così mi piace che le anime mie spose camminino in verità (II, 647).

Dopo la dichiarazione della propria identità (le formule del tipo «Io sono Gesù» son frequentissime), il Signore si autorivela come la verità. Il termine via è implicito («che le anime mie spose camminino»), ma della frase giovannea Veronica ha colto, in fondo, un aspetto solo, quello della verità, legato al tema dell’ammaestramento.
Quest’ultimo doveva esserle particolarmente caro, perché su di esso ritorna in una formula di autorivelazione che chiamerei «spontanea» nel senso che non ha ascendente scritturistico se non nella forma. È forse una reminiscenza di santa Teresa d’Avila, piena però di immediatezza e di efficacia.:

Io sono il tuo libro (V, 403).

Altrove poi il Signore si dichiara indirettamente la scuola dell’amore (II, 2) nella quale fanno da libro di testo le sue sante piaghe.
Sono del resto frequenti nel Diario le citazioni e i rimandi a Mt 11:29 («Imparate da me, perché sono mite e umile di cuore»), quasi a sottolineare come Veronica percepisse in chiave per così dire «sapienziale» il suo rapporto con Gesù. In particolare va notato lo stretto nesso tra verità e umiltà che sempre è riaffermato in questi contesti: il conoscere il Signore come verità e l’imparare da Lui non fanno che inabissare Veronica nella cognizione di sé e rafforzano in lei la decisione a vivere in maniera conseguente.
Non è dunque azzardato concludere che la verità è il termine più caro alla Santa ed è visto nel suo aspetto dinamico: verità che si manifesta, ammaestra, fa crescere nella fede e nella donazione di sé.

4. Tra le altre formule «spontanee», la più solenne e la più piena di assonanze bibliche compare in I, 109:

Sta posata, ché sono il tuo Signore. Se non sai niente, se non puoi niente, Io sono il tutto.

Vanno notate due cose. Anzitutto, nel contesto immediatamente precedente (I, 103) compare Ego sum qui sum: dunque siamo di fronte a un’interpretazione del nome di Dio. Tale interpretazione è duplice: Io sono il tuo Signore, che rimanda all’atto di fede originario e fondamentale del cristianesimo («Gesù è il Signore», cfr. Fil 2:11) qui arricchito dal possessivo «tuo»; e Io sono il tutto nel senso di colui che tutto opera con potenza, ― anzi il cui essere è potenza provvidente. Come si vede, siamo all’interno di una confessione di fede e di un’interpretazione del dato rivelato estremamente corrette.
Dove però Veronica, si sbizzarrisce, almeno dal punto di vista numerico, in formule di autorivelazione, è nel linguaggio sponsale. Gesù si presenta costantemente come «tuo sposo», «tuo vero sposo», «tuo caro sposo», Egli si chiama e si dichiara «sposo». All’interno di questo lessico più marcatamente affettivo, notiamo:

Impara da me. Io sono l’unico tuo bene. T’invito al patire (III, 905).

Dove l’autorivelazione si accompagna a una logica di alleanza. Il Signore infatti si rivela, ammaestra Veronica, ma le chiede un pieno consenso del cuore.
E ancora

― Io sono il tuo Dio di amore, Io sono il tuo sposo fedele, Io sono il tuo dilettissimo e tu sei la mia diletta. Che brami? (I, 449).
― Io sono il divino amore e vengo per comunicare il medesimo al tuo cuore. Voglio che tu ti dia tutta a me (II, 612).

Un caso molto speciale è certamente quella autorivelazione del Signore che Veronica percepì nell’infanzia, notissima a tutti noi.

Io sono il vero fiore (I, 2; V, 32.86.98),

per la quale andrà notata la condiscendenza del Signore stesso nel manifestarsi a una bambina in termini tanto diretti e, al tempo stesso, la precoce capacità di lei di cogliere come i suoi giochi e la sua vita avessero un senso penultimo rispetto al mistero di Dio.
Infine segnaliamo ancora:

Io sono tuo vero medico (II, 459),

dove l’aggettivo «vero» ha la funzione di solito esplicata dall’articolo, come in altri casi, ma di cui bisognerà notare il contesto: la formula infatti èmessa in bocca a Gesù in un momento in cui le cure prodigate alla Santa si rivelano inutili e controproducenti;

Io sono voce per te (II, 504),

formula che ribadisce la potenza della redenzione operata da Gesù e il suo valore di intercessione perenne, tale da confermare Veronica nella speranza;

Io sono l’unico pensiero tuo (II, 238),

con queste parole il Signore dissipa i pensieri che sopravvengono a Veronica durante la celebrazione del Mattutino.
Resta infine una formula in latino che sembra fondere insieme Giovanni, Paolo e l’Antico Testamento in una sorta di crogiolo interpretativo della salvezza offerta dal Signore:

Ego sum pax tua (cfr. Ef 2:14). Io son la tua pace.
E poi di nuovo replicava: Ego sum qui sum. Sono per te.
Eccomi. Dimmi cosa tu vuoi (I, 314).

5. Tentiamo ora di abbozzare qualche osservazione finale. Ripeteremo dunque che Veronica sapeva tesaurizzare la Parola di Dio che ascoltava. Il Diario ci testimonia che la ripeteva, cercava di interpretarla con la meditazione assidua, e soprattutto lasciava che questa Parola la provocasse a conversione continua.
Le formule che abbiamo chiamate «spontanee», ricorrendo accanto ad altre strettamente scritturistiche, testimoniano come le Santa cercasse di attualizzare, ― come si usa dire adesso ―, la Parola di Dio per la propria vita, riscoprendo la Parola eterna nel suo vivere presente e rendendola operante nel suo proprio oggi. La Parola che è viva ed efficace può dare origine a parole sempre nuove, operatrici di salvezza e di conversione, laddove l’uomo le accolga con fede, come un invito rivolto a lui personalmente: ed è questo proprio il caso di Veronica.
Ugualmente potremo dire che l’interpretazione veronichiana del nome divino da cui siamo partiti, è corretta nell’insieme e nei dettagli. Nell’insieme, perché ha saputo cogliere come la realtà di Dio testimoniata dal suo nome sia quella di essere Provvidenza e Salvezza, manifestate pienamente e in modo irreversibile in Gesù Cristo; nei dettagli, perché ciò non resta una percezione vaga e generica, ma è, per così dire, sbriciolata in una serie di intuizioni, che accompagnano e illuminano passo passo la vita della Santa.
Dovremo allora, finalmente, accettare la sua lezione e volgerci anche noi alla Sacra Scrittura affinché, resi di nuovo familiari con la divina Parola, lasciamo che questa sostanzi di sé le parole e le espressioni del nostro vivere quotidiano.
Quanto a questo, Veronica ha ancora molto da insegnarci.

Sr Stefania Monti