Una citazione diretta – Esodo 3:14

1. Iniziamo questo cammino di ritorno alla Parola di Dio secondo l’insegnamento della nostra Santa con una citazione diretta.
Dopo averne ricostruito il significato dal punto di vista dell’esegesi biblica, vedremo, attraverso il Diario, come Santa Veronica mostri di essersi appropriata di questo passo interpretandolo correttamente e vivendolo in maniera integrale.
Parliamo allora del nome divino, come appare in Es 3:14 «Io sono colui che sono», – secondo la traduzione corrente.

2. Potrà sembrare strano che attorno a queste poche parole si siano accese molte discussioni. In realtà la comprensione di questo versetto non è immediata e i commentari segnalano diverse possibilità di traduzione, come già le versioni antiche. Non è questa la sede per vagliarle tutte ad una ad una. Ci fermiamo solo su quella che appare la più probabile, perché più rispondente alle esigenze tanto della filologia che del contesto. Rileggiamo insieme:

«Disse Dio a Mosè: ‛Io sono colui che sono’. E soggiunse: ‛Così dirai ai figli d’Israele: Io sono mi ha mandato a voi’. Disse ancora Dio a Mosè: ‛Così dirai ai figli d’Israele: YHWH, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi: questo è il mio nome per sempre, con cui sarò ricordato di generazione in generazione’» (Es 3:14-15).

Il testo associa tre termini da confrontare: una formula lunga («Io sono colui che sono»), una formula breve («Io sono»), e un appellativo (YHWH), da intendersi come una forma verbale arcaica che si può tradurre «Egli è». Tutti e tre i termini sono affermazione di esistenza di colui che sta parlando a Mosè; per quanto riguarda la formula lunga, che è quella che ci interessa da vicino, ci sono due possibilità di interpretazione.
Potrebbe infatti trattarsi di un’espressione volutamente indeterminata, con la quale Dio vuol dire e non dire al tempo stesso. Da una parte risponde a Mosè, ma senza lasciarsi catturare fino in fondo da una definizione. Formule simili esistono, del resto, nell’Antico Testamento (cfr. Es 4:13 «manda chi vuoi mandare»).
O, al contrario, potrebbe trattarsi, grazie alla ripetizione, di una proclamazione di esistenza formulata in maniera intensiva: Dio parla allora di sé come dell’unico veramente esistente; fornisce anzi, poco più avanti, un appellativo, YHWH, che afferma a sua volta la medesima esistenza alla terza persona, permettendo di invocarlo nei termini con cui egli stesso si è descritto.
Questo nome quindi definisce la realtà profonda di Dio, allo stesso modo della formula intensiva che compare in Es 33:19, allorché Dio risponde alla richiesta di Mosè di svelargli il suo modo di essere dice: «Farò grazia a chi farò grazia e avrò misericordia di chi avrò misericordia», – vale a dire: «Io sono veramente colui che fa grazia e che ha misericordia».
L’accostamento di Es 3:14 e 33:19, che sono costruiti secondo lo stesso modello stilistico, ci permette di fare un passo avanti, per chiarire che cosa potesse significare per l’autore di questi versetti che il Dio d’Israele è l’Esistente. Vedremo in seguito che proprio questo significato è stato recepito dalla tradizione tanto ebraica che cristiana, nonché da Veronica.
Osserviamo, prima di tutto, il contesto immediato di Es 3:14, cioè i capp. 3-4. A più riprese Dio promette di essere con Mosè nell’opera di liberazione degli Israeliti (3:12, 4:12, 4:15); in due casi ricorda gli antenati egli non è un Dio diverso, ma quello stesso che intrattenne con essi un rapporto personale di guida e di aiuto (3:6, 3:15, cfr. 6:2ss). I patriarchi ne hanno sperimentato la vicinanza nel passato, Mosè la sperimenterà nel futuro: questo Dio che ora gli parla è il Dio-con-loro, come più tardi dirà Isaia (7:14).

Il testo connette allora indissolubilmente esistenza e potenza salvifica di Dio. Dal nostro punto di vista sarebbe forse più semplice comprendere l’«Io sono» divino alla luce della metafisica, ma siamo alle prese con una cultura ancora prefilosofica, che cerca e trova nell’opera di Dio l’epifania della sua sovrana esistenza.
Del resto, il monoteismo ebraico non ha alcun interesse verso una pura affermazione di esistenza, se questa non coinvolge direttamente il credente e la sua vita. Come talora è stato osservato, esso si connota più come ortoprassi che come ortodossia, ― il che è in stretta dipendenza dal fatto di riconoscere Dio come unico esistente e salvatore.
La rivelazione del nome divino suona quindi come una provocazione per Israele a vivere effettivamente la propria condizione di popolo di Dio.

3. Vediamo ora la storia di «Io sono colui che sono» nel Diario veronichiano. Vi compare, se vedo bene, più di venti volte; più spesso in latino (Ego sum qui sum: I, 103.131.145.314.505.569. 903.935; II, 87.118.148.1221; III, 919.1032.1103; IV, 339), ma talora anche in italiano (Io sono chi sono: I, 558.855; II, 38,140.216.245; III, 917).
Quanto alle fonti, la Santa ce ne indica una, cioè un’antifona del Mattutino di Pasqua (I, 131/I, 903); ma senz’altro ne possiamo postulare una seconda, soprattutto per la rielaborazione che ella compie del testo in tre occasioni, attraverso la contrapposizione «Io sono chi sono e tu sei chi non sei» (II, 38.87; III, 919), che compare già in Caterina da Siena (Vita di RAIMONDO DA CAPUA I, 10,1, – e parecchie volte anche nel Dialogo; cfr. inoltre CORNELIUS A LAPIDE, Commentaria I, 296). In ambedue le mistiche Dio è l’esistente e opera tutto, e l’uomo non è né ha forza propria per operare; Veronica scrive chiaramente che «nessuno lo può comprendere e conoscere», ma che egli agisce ed è necessario sperimentare la sua azione (II, 118). Dunque l’essere di Dio e il nome che lo enuncia sono letti e compresi in chiave salvifica; ma se questa è la prima, non è l’unica somiglianza che troviamo, a questo proposito, tra il nome divino dell’Antico Testamento e il Diario.
Anche per Veronica l’essere di Dio è un essere con. Compare diverse volte, dopo la citazione di Es 3: 14, la precisazione «Io sono per te» (I,314.469.558.855; II,216) o inviti a non aver paura e a sperare (I, 505.569; II, 53.148.245). In particolare leggiamo che Ego sum qui sum è collegato all’intera historia salutis della Santa (cfr. specialmente I, 1221); cosa questa che è corrente nei commenti tradizionali ebraici, i quali connettono l’«Io sono» con tutta la storia salvifica dei figli d’Israele dalla creazione al tempo ultimo. Tale dimensione futura è già attestata anche in Ap 1:18, dove la formula «colui che era, che è e che viene» è subito chiosata con il titolo «l’Onnipotente».
L’Esistente si propone a Veronica come «tutto di tutti, tutto di ciascheduno, tutto per te» (I, 855); come «sposo» (II, 38); come «giudice, ma giudice amoroso» (II, 140); come «il posseditore di quest’anima» a cui fa conoscere il suo potere, il suo «braccio potente» e il suo «amore infinito» (III, 919).
Ego sum qui sum è tradotto dalla Santa «Io sono tuo» (III, 1032); è il nome di colui che «si è fatto sentire regnante e comandante, con farmi promettere di non voler mai più la mia volontà, ma sempre la sua» (III, 1103).
Dunque un nome che si pone anche come una richiesta di fedeltà, allo stesso modo in cui, nell’Antico Testamento, intendeva suscitare un monoteismo vissuto; ma ora Dio, rivelandosi, rende capace l’anima di vivere ciò che richiede attraverso la donazione di Sé. Egli non è più soltanto accanto all’uomo a cui si rivela per sostenerlo, ma dentro di lui, per trasformarlo (cfr. II, 245):

«Io sono chi sono. Posso tutto. Il mio potere niuno può arrivare e però io comunico me stesso all’anima ed amo la medesima quanto me. Ed ella, con il medesimo amore mio, ama in me, con me, per me» (III, 917).

Dobbiamo allora constatare che anche nel Diario l’«Io sono» divino non appare un’affermazione di ordine metafisico, quanto piuttosto una rivelazione salvifica: Dio è il Salvatore sempre presente, che conduce Veronica ad un’unione sempre più profonda con continue operazioni salvifiche (I, 131), che abilitano l’anima stessa al bene: Egli agisce perché è e viene conosciuto dalle sue azioni come l’Esistente, o, se si vuole, il Signore; la creatura per sé non è, ed è capace di nulla («il mio nome, il mio essere è niente» I, 928), ma può, partecipando all’essere di Dio, operare essa stessa il bene e farsi strumento di salvezza.

Esiste qualcosa di specificamente veronichiano in questa lettura? Per il momento possiamo solo abbozzare una risposta, perché il problema del nome divino non si può considerare chiuso qui. Ci sono da tenere presenti altre formule del Diario e sarà necessario riprendere il discorso. Tuttavia possiamo fin da ora fissare qualche punto di riferimento.
L’incontro con l’Esistente ha un duplice effetto per Veronica: da una parte provoca in lei la cognizione del suo niente e dall’altra un senso di unione profonda (cfr. I, 104.131). Ma come il nome divino è legato all’opera di salvezza, così l’incontro suscita nell’anima il desiderio di partecipare totalmente a quest’opera ed è proprio qui che si delinea ciò che è caratteristico della Santa: Ego sum qui sum significa per lei piegarsi totalmente alla volontà di Dio (II, 38.140; III, 1103; IV, 339), partecipare a sempre nuove battaglie (I, 569); essere «confermata per sua sposa e nella strada del patire» (I, 855; cfr. I, 505).

Formule di autorivelazione del Signore

1. Il versetto dell’Esodo che abbiamo esaminato nell’articolo precedente, fa parte delle cosiddette formule di autorivelazione di Dio nell’Antico Testamento: sono quelle proposizioni attraverso le quali Dio rivela se stesso e, per così dire, si consegna agli uomini facendosi conoscere per quello che è, che vuol fare e che fa. La tipologia di queste formule si articola in quattro famiglie, e precisamente:
a) formule di rivelazione in senso stretto, del tipo «Io sono YHWH», con le quali Dio manifesta il suo essere, rende noto chi egli sia e come sia (Gen 28:13.15, Es 3:14, 6:2.29, Ez 20:5, Sal 81:11); attraverso di esse l’uomo è posto di fronte all’io di Dio e tale presenza lo rassicura, tanto che a questo tipo di formula si accompagnano spesso le espressioni «non temere» e «io sono con te».
b) formule che danno fondamento a una parola di Dio e contribuiscono a rafforzarla, per esempio come all’inizio dei comandamenti (Es 20:1.5) e dei testi giuridici: l’uomo è in tal modo richiamato al fatto che i comandamenti non scaturiscono da decisioni umane, ma sono un segno della volontà di Dio;
c) formule che hanno la funzione di portare al riconoscimento dell’azione salvifica e del primato di Dio nella storia (Es 6:7, 7:5.17.18 etc., Ez 6:7.13, 7:9.27 etc., Sal 46:11) del tipo «riconoscerete che io sono YHWH»;
d) formule che vogliono evidenziare l’unicità e l’esclusività di Dio nei confronti di altre divinità: come tale questo tipo di formula si trova specialmente nel Secondo Isaia («Io sono il Signore e non ce n’è altri» Is 45:5.6.18.21.22, 46:9).

2. La reiterata lettura del Vangelo di Giovanni, che la chiesa propone soprattutto nel tempo pasquale, ci ha certamente reso familiare una serie di formule di autorivelazione («io sono») tipiche di questo evangelista e che servono a completare il quadro che abbiamo sopra abbozzato.
Unico forse tra gli Evangelisti, Giovanni pone sulla bocca di Gesù due tipi di formule ― «io sono» e precisamente:
a) formule con un predicato ( Gv 6:35.48.51, 8:12, 10:7.9.11.14, 11:14.25, 14:6, 15:1.5);
b) formule di tipo assoluto (Gv 8:24.28.58, 13:19) che, in due casi, sottintendono un predicato (Gv 6:20 e 18:5.6.8. ), – è proprio su queste che vogliamo per ora, fermare la nostra attenzione.
Gesù proclama dunque «io sono» senza alcun altra precisazione usando queste parole in maniera assoluta. Per di più tale proclamazione si trova sempre in contesti provocatori per la fede di chi ascolta o legge.

In Gv 8:24 («se infatti non crederete che io sono, morirete nei vostri peccati») Gesù pone il suo essere come discriminante di giudizio perché questo essere è il contenuto della fede; in Gv 8:28 («quando innalzerete il figlio dell’uomo, allora saprete che io sono e che non faccio nulla da me stesso, ma così come il Padre mi ha ammaestrato, queste cose io dico») l’essere di Gesù è invece al centro della fede come relazione al Padre (si vede il v. 29 «e chi mi ha mandato è con me»); ma certamente il testo più significativo è quello di Gv 8:58: «prima che Abramo fosse io sono». È chiaro che l’intento di Gesù non è solo di rivelare
la propria preesistenza nel tempo, ― per questo bastava un verbo all’imperfetto («prima che Abramo fosse, io ero») ―, ma piuttosto di collocarsi al di sopra di Abramo quanto all’essere. La reazione dei suoi ascoltatori è, infatti, immediata; essi cercano di lapidarlo, perché quell’«io sono» è stato compreso immediatamente come qualcosa di forte, anzi di blasfemo.
E che cosa ha detto di sé Gesù usando il verbo essere al presente in modo così perentorio e staccato dal contesto verbale di questa pagina di Giovanni? Quasi spontaneamente il nostro pensiero torna al nome divino di Es 3:14 «Così dirai ai figli di Israele: ‛Io sono’ mi ha mandato a voi».
Questo essere assoluto è il centro della rivelazione e della fede anche e soprattutto per il mistero della Pasqua (Gv 13:19), fino ad arrivare alla solenne manifestazione di Gesù nell’Apocalisse: «Non temere: Io sono: il primo e l’ultimo, e il vivente; io fui morto ed ecco son vivente per i secoli dei secoli, e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap 1:17-18), dove l’essere è un essere di potenza, manifestatosi ora in maniera irreversibile.
Anche nei casi in cui la formula «io sono» pare assoluta, ma sottintende in realtà un predicato (Gv 6:20 e 18:5.6.8), i contesti sono tali che essa si impone a chi ascolta o legge con un’evidenza particolare.
Nel caso di Gv 6:20 abbiamo di fronte un contesto epifanico; in quello di Gv 18 un contesto teofanico: benché infatti il senso della formula sia soltanto «sono io quello che cercate», la risposta di Gesù appare una manifestazione di potenza, con una intrinseca efficacia: i presenti infatti «indietreggiarono e caddero a terra», Gv 18:6.

3. Il fatto che «io sono» deve essere considerata una formula tecnica con un significato specifico e non una semplice affermazione di esistenza. Gli studiosi (e non intendiamo qui dilungarci in una minuziosa spiegazione) hanno ricostruito che «io sono» va inteso propriamente come un nome divino, al punto che alcune bibbie a stampa di recente edizione lo stampano a caratteri maiuscoli; e si è appurato che Giovanni usa questa espressione particolarmente per indicare la divinità di Cristo, la sua unicità come Signore nonché il carattere dinamico e salvifico del suo essere divino.
Questa lunga ma, spero, non troppo pesante introduzione intende essere l’avvio allo studio di alcune formule «io sono» o «Ego sum» del Diario di santa Veronica.

4. Non sarà certo possibile rivisitare qui tutte le pagine del Diario in cui compare la formula «io sono», giacché sono parecchie decine. Ci limiteremo alle più significative e vorrei cominciare da un passo del 1697, particolarmente affascinante:

Stavo in cella e raccomandavo a Dio i bisogni presenti di questa città. Mi sentii come una fiamma nel cuore. Questa fiamma mi leva dai propri sensi ed il Signore mi si dimostra, con dirmi: Io sono. In questa parola fa grandi opere nell’anima mia. Ella si sente come una rinnovazione di tutto quello che Iddio opera in lei di continuo […]. La sera sul tardi, di nuovo mi sentii tutta fuoco e queste fiamme amorose mi si dilatavano anche nell’anima, ed in un subito parsemi sentire: Io sono. Questa sola parola mi basta (II,82).

Ora noi abbiamo un solo modo per spiegarci l’intrinseca efficacia di questa parola che «fa grandi opere» e che da sola basta, quello cioè di considerare «Io sono» il nome di Dio e di ricordare che secondo la dottrina dell’Antico e del Nuovo Testamento il nome è il sacramento della presenza. Dire il nome è dire la persona stessa del Signore nel suo essere dinamico e operatore di salvezza; specialmente questo nome, «Io sono», che è il nome del Dio del roveto.
Ritroviamo una formula analoga e che produce i medesimi effetti in un passo risalente al 1699:

Non ebbi visione; solo sentii di nuovo quella voce che ridiceva: Fa di essere fedele; combatti con generosità; io son teco (cfr. Es 3:12 e Is 45:3); non dubitare.
Mi pare che questa sola parola mi apportasse gran forza, e di nuovo parvemi di sentirmi tutta conformata col divino volere ed unita e ferma in quella fede e speranza di Dio solo (II, 511).
E ancora in un altro testo risalente al 1697:

Ego sum […].Questa sola parola mi ha dato tanta forza […]. Tanto mi era restata quella certezza, quel vigore e forza di quel sentire quell’Ego sum (II, 309; cfr. II, 404.524).

La naturale traduzione, se così si può dire, che la Santa dà di questo «Io sono» è, quasi sempre, «Io sono per te» che ricorre moltissime volte, e talora, «Io sono teco», accompagnati spesso da altre parole rassicuranti: «non temere», «non dubitare» (I, 9.11.20. 29.118.348.468.487.544.576. 578.740.757.776.791.814.834 e non andiamo oltre …).
Che questo «io sono» sia più di una semplice autopresentazione del Signore, e propriamente una formula fissa si desume, mi pare, dal fatto che talora compare in latino («Ego sum» con o senza «noli timere»: I, 63.468.498; II, 53.92.240.309.332.340.448.524; III, 1179; V, 451 e ancora I, 41;II, 402.745; V, 451).
La fonte della citazione è senz’altro liturgica, come già lo era per Es 3:14 che, come abbiamo visto, era un testo molto familiare alla nostra Santa.
Ma familiare le era anche «Ego sum, noli timere» ( cfr. in particolare II, 402) che la Santa ha forse desunto da Luca (24:36), allora così citato dalla liturgia romana. La critica recente tende ad espungere questo versetto da Luca, considerandolo una glossa, derivata forse da Gv 6:20, e come tale non lo troviamo nelle nostre traduzioni recenti del Nuovo Testamento. Anche in questo caso, quindi, siamo comunque riportati all’ambito delle formule epifaniche di Giovanni di cui abbiamo parlato all’inizio, per quanto sia Giovanni che Luca abbiano l’imperativo della seconda persona plurale (cfr. invece Ap. I:17 per l’imperativo alla seconda persona singolare).
Anche nei casi in cui «io sono» sia da intendere nella maniera più semplice e diretta, specialmente per esempio quando il Signore vuole rassicurare la Santa di essere proprio lui e non il demonio, pure la formula si impone con una forza particolare, come abbiamo riscontrato anche in Gv 19:6 (I, 110s.823; II, 745).
Quali altre reazioni suscita questa formula in Veronica? Principalmente, se vedo bene, due: la cognizione del proprio nulla e una grande ansia unitiva, un desiderio estremo di appartenere a Dio solo:

― In questo Ego sum, si accese il cuor mio, di modo che andavo dicendo: Mio Signore, eccomi tutta vostra e voi siate tutto mio (I, 323).

― Così mi è parso che mi abbia detto: Io sono. Questa sola parola mi ha avvivato la fede, mi ha destato le potenze e mi ha acceso il cuore ((I, 632).

― Tutta mi rallegrai e dissi: Domine, quid me vis facere? Parvemi sentire: Datti tutta a me. Vieni a me. Io sono (I, 775).

E ancora si vedano: I, 63; II, 55.112; III, 1179.
Consideriamo infine alcune occorrenze della formula che si prestano a qualche considerazione particolare.
Anzitutto la dimestichezza di Veronica con questa formula, cui abbiamo già accennato. Essa l’accompagna lungo l’arco della giornata mentre svolge le mansioni quotidiane («mentre facevo le faccende» I, 487). La Santa avverte la presenza del Signore che le dice «Io sono, non dubitare»; ma forse potremmo pensare anche alla pratica della ripetizione di questa parola che la sostiene durante il lavoro e le ripresenta ogni momento la persona del Signore con la sua efficacia sacramentale.
Altrove la formula è connessa direttamente al linguaggio sponsale, tanto caro a Veronica (I, 666.814; II, 92.448 etc); spesso risuona in Veronica al tempo della comunione, allorché la presenza del Signore è certamente più forte (I, 855; II, 120.127); e funziona per Veronica come richiamo all’obbedienza (II, 524); del resto, non è proprio dell’essere di Gesù quello di essere obbediente al Padre?

5. Un’ultima osservazione, rimandando le conclusioni generali a quando avremo esaminato anche le formule con un predicato: la gran parte delle occorrenze che abbiamo visto finora si colloca negli anni tra il 1697 e il 1699. Non è la prima volta che capita di rilevare questo dato, allorché si esamina il linguaggio del Diario. Ritengo che si tratti di un dato significativo a diversi livelli, sia cioè dal punto di vista tecnico che dal punto di vista spirituale, ma per appurarne il senso sarà necessaria un’indagine sistematica e finalizzata. (continua)

Sr Stefania Monti