Il Dio che traspare. Pregare oggi

Dimmi com’è la tua preghiera, e ti dirò com’è il tuo Dio. O meglio: ti dirò quale immagine di Dio hai. Dimmi com’è il tuo Dio, e ti dirò com’è la tua preghiera. O meglio: ti dirò come dovresti pregare. Dimmi come prega la tua Chiesa, e ti dirò come sta annunciando Dio nella cultura di oggi. O meglio: ti dirò come si sta configurando la nostra sensibilità cristiana. Dimmi com’è la tua preghiera di fronte al male, e ti dirò se contribuisce a trasformare l’immagine del tuo Dio nella «roccia dell’ateismo» o nella garanzia di una fiducia incrollabile.

Dimmi com’è la tua preghiera, e ti dirò com’è il tuo Dio. O meglio: ti dirò quale immagine di Dio hai. Dimmi com’è il tuo Dio, e ti dirò com’è la tua preghiera. O meglio: ti dirò come dovresti pregare. Dimmi come prega la tua Chiesa, e ti dirò come sta annunciando Dio nella cultura di oggi. O meglio: ti dirò come si sta configurando la nostra sensibilità cristiana. Dimmi com’è la tua preghiera di fronte al male, e ti dirò se contribuisce a trasformare l’immagine del tuo Dio nella «roccia dell’ateismo» o nella garanzia di una fiducia incrollabile.

Sono domande serie, perché riguardano il nucleo della fede cristiana. In pratica, stiamo parlando della difficoltà concreta presente nella preghiera di domanda, quando è rivolta al Dio annunciato da Gesù. Perciò è opportuno andare alla fonte. Fortunatamente, prima di noi l’hanno detto i discepoli: «“Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno”» (Lc 11,1-2).

Da quando Gesù di Nazaret ha pregato ed è vissuto tra noi, il vero nome di Dio è Padre, Abbà: padre-madre, amore oblativo e tenerezza attenta e instancabile. Che si preoccupa, prima di tutto, della sofferenza, della paura e dell’angoscia che, in momenti come questo, assalgono le sue figlie e i suoi figli.

Vengono in mente le sue parole: se pur essendo cattivi, i genitori umani pensano solo al bene dei loro figli, «quanto più» il vostro Padre celeste! (cf. Mt 7,11; Lc 11,13). Se ogni giorno ci spaventano le notizie dei contagi e dei morti; se, alzando lo sguardo, ci si stringe il cuore a pensare a cosa stanno passando i senza tetto in strada, gli immigrati senza casa; se, guardando ancora più lontano, nei paesi poveri e in un intero continente potrebbero morire migliaia, forse milioni, di persone… cosa penseremo di Dio? È ovvio che, dopo Gesù, non possiamo che concepire questo coronavirus come una terribile corona di spine che lacera con crudeltà il cuore del Padre.

Una metafora povera, sicuramente; di un balbuziente antropomorfismo. Ma il suo significato è povero non perché è esagerata, ma perché gioca al ribasso. Chi ha avuto la fortuna di sperimentare che il proprio padre e la propria madre, se necessario, sarebbero stati disposti a morire al posto suo, ha in questo una pallida idea di quale può essere – misteriosa ma certa – la preoccupazione divina per la sofferenza umana: l’attiva sollecitudine, il fermo impegno di Dio di fronte al male terribile che tormenta il suo mondo. Prima del Vangelo l’aveva detto Isaia: anche se una donna si dimenticasse del suo bambino, il nostro Dio non si dimenticherà mai di noi (cf. Is 49,15).

Gesù, commosso (mi azzardo a dire: ossessionato) dalla profondissima intuizione di questa preoccupazione assolutamente prioritaria di Dio per le sofferenze dei suoi figli e delle sue figlie, ci ha spronato a proclamare: «Sia santificato il tuo nome». Un moto di rispetto e di adorazione. Di un rendimento di grazie che è sfociato, intimo e ardente, in un «inno di giubilo» di fronte al mistero insondabile di questo nome santo. Era questa la notizia che voleva trasmettere all’umanità: non un messaggio esoterico, riservato ai dotti e ai sapienti, ma un messaggio aperto e comprensibile a tutti, a partire dai più piccoli e semplici.

Ferire la tenerezza del Padre

Davanti a questa constatazione, mi prende ancora una volta uno stupore che mi sta accompagnando già da molto tempo: com’è possibile che nelle nostre preghiere, invece di trattare questo nome con estrema attenzione e amorevole rispetto, continuiamo a invocare Dio in un modo così ingiusto e distorto? Invece di ricordarci della sua immensa tenerezza, che pensa solo al nostro bene, e di essere grati della sua vibrante preoccupazione per il male, continuiamo a immaginarlo – sebbene «sappiamo» che non può essere così – distante e passivo, come se rinunciasse a esercitare l’aiuto e la cura di cui è capace. E continuiamo a ripetere formule e parole che ferirebbero la sensibilità di qualsiasi madre o di qualsiasi padre: ricordati di noi, abbi compassione, ascolta, abbi pietà…

Non è mai questa, di certo, la nostra intenzione. Ma è questo ciò che dicono le nostre parole e che poi, per fatale conseguenza, si traduce nei nostri comportamenti: cercare di convincere Dio con intercessori e avvocati, conquistare il suo favore con offerte e suppliche o muoverlo a compassione con sacrifici.

Ci è duro pensare alla costante e incosciente facilità con cui, invece di ascoltare fino in fondo l’appello di Gesù – «sia santificato il tuo nome» –, continuiamo a ferire con le nostre parole l’infinita tenerezza evocata dal santo nome di Padre.

È questo l’unico vero nome di Dio annunciato da Gesù. Di Dio che «è amore» o, secondo una traduzione più corretta, che «consiste nello stare amando»: che «non dorme né sonnecchia», ma veglia per amore del suo popolo. Di Dio che non sa né vuole né può fare altro che amare, preoccupato solamente ed esclusivamente del bene di ognuna e di tutte le sue creature. Di Dio che non ci ha creato per la sua gloria, ma per il nostro bene; non per essere servito, ma per aiutarci, proteggerci e, osiamo dirlo, per essere lui a servirci.

Curare le «malattie del linguaggio» è diventata una delle grandi preoccupazioni della filosofia moderna. Curare le malattie delle parole con le quali formuliamo le nostre preghiere rappresenta un’urgenza che bussa con forza alle porte della teologia… nonché del sentire comune. Se si ricorda Gesù, senza nascondersi dietro a letteralismi fondamentalisti e soprattutto mostrando rispetto per Dio e per la tenerezza del suo amore infinito, non valgono scuse o precisazioni, non c’è spazio per i sotterfugi linguistici o teologici.

Non serve argomentare che le nostre preghiere non dicono quello che significano le loro parole: «Quando chiediamo non vogliamo chiedere; quando, in coro e con insistenza, esortiamo Dio a essere compassionevole e misericordioso, non pretendiamo di affermare che non lo è…». Per non parlare dei numerosi testi teologici che, nascondendosi in modo falso e fondamentalista dietro il libro di Giobbe, affermano che possiamo ribellarci a Dio, chiedergli conto, ingiuriarlo con parole taglienti o perfino osare le peggiori assurdità, fino a bestemmiarlo. Per molto meno, Karl Barth ha parlato in qualche caso di pietose insolenze.

Parlare male «reca danno alle anime»

È ovvio che non pretendo di giudicare le intenzioni soggettive. Tanto meno voglio spingere all’abbandono della preghiera. Pregare senza sosta e senza interferenze dovrebbe essere come una pioggia che rende fecondo ogni minuto della vita. Ma si tratta di pregare bene. Non di abbandonare la preghiera, il che sarebbe impossibile, ma di ripulirla da adesioni false, da abitudini o da presupposti troppo umani, che oscurano il suo vero senso e inquinano i valori forti e autentici che essa contiene.

È questo il motivo per cui parlo di andare oltre la domanda. Sarebbe ingiusto non riconoscere che, se tale forma di preghiera si trova nella stessa Scrittura e si è storicamente mantenuta, è perché in essa sono presenti valori profondissimi e irrinunciabili: umiltà davanti a Dio, sentirsi bisognosi del suo aiuto presupponendone la bontà, la compassione e la solidarietà con coloro che soffrono, desiderosi di migliorare noi stessi e di aiutare gli altri…

Pretendere di negare tutto ciò sarebbe insensato, e annullarlo rappresenterebbe un autentico delitto religioso. È proprio il contrario: si tratta di riconoscere questi valori e di proclamarli come tali, ma ripulendoli da quelle scorie, involontarie ma corrosive, che li contraddicono e li prevertono attraverso l’enorme forza configuratrice che il linguaggio esercita sullo spirito umano.

Infatti questa corrosione agisce ogni volta che convertiamo la semplice esposizione di questi valori nella domanda rivolta a Dio in parole che, al di là della nostra intenzione, pervertono il suo significato. Parole che non fanno male a Dio, poiché non gli si nasconde la buona intenzione. Ma fanno male a noi, perché, come ebbe a dire Socrate, parlare male reca «danno alle anime». Ciò che oggi, anche solo tenendo presente la filosofia del linguaggio, viene solo confermato e anzi accresciuto in misura non facilmente calcolabile.

Tanto la fede quanto il suo annuncio ne risulteranno gravemente danneggiati se si persisterà a supplicare chi si dedica solo ad aiutare; a convincere chi è già, sempre e senza mai darsi tregua, rivolto al nostro bene; a muovere a compassione chi, con sollecitudine infinita, sta cercando di muovere i nostri cuori a collaborare con lui, che è misericordioso e che cerca il bene dei suoi figli e figlie.

Questo atteggiamento presuppone un’inversione tanto palese e clamorosa che, se non fosse per l’abitudine, l’involontarietà e anche la buona intenzione, sarebbe una mostruosità religiosa. Infatti non solo stravolge l’ordine della creazione, ma anche, e soprattutto, suppone un attentato crudele e offensivo contro l’amore di Dio. «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui», dice il libro dell’Apocalisse (3,20). Un simbolo, quasi una supplica che sottintende la grandezza dell’inversione.

Se a qualcuno venisse il sospetto o il timore che negare la domanda implichi superbia o autosufficienza, in quanto non riconoscimento dell’umiltà della condizione umana davanti a Dio, costui deve comprendere che significa esattamente il contrario: non c’è confessione più profonda della vera povertà umana che riconoscere che tutto, assolutamente tutto ci viene da Dio, dall’esistenza fino al desiderio stesso di pregare.

Qualsiasi sentimento di compassione e qualsiasi intenzione di aiutare il prossimo sono sempre la risposta a un’iniziativa divina che ci fonda, ci precede, ci coinvolge e ci convoca. La preghiera dovrebbe consistere nel lasciarci investire, convincere e muovere da quest’onda infinita d’azione creatrice e d’amore salvifico.

Come il figliol prodigo

Sta qui la vera umiltà, che non è né infantile né riduttiva, ma che anima e promuove. Lutero, ammirato di fronte all’assoluta gratuità della grazia, esclamò stupito: «Siamo mendicanti. Questa è la verità». Per fortuna, è una parte della verità. La nostra povertà infatti è soltanto il segno del nostro limite, di una creatura che necessariamente deve essere generata nel tempo e farsi nella storia. Ma non è un limite segnato dall’abbandono o dal disprezzo. Non siamo né schiavi né mendicanti: siamo figlie e figli, infinitamente amati e definitivamente beneficati.

Illuminati dalla Parola, dall’esempio e dalla vita di Gesù, siamo sicuri che l’amore di Dio non viene meno. Ma non accade lo stesso con la nostra fede in questo amore. La nostra misura è troppo picccola per accogliere la sua grandezza. È sempre in via di compimento e non è mai compiuta. La preghiera dev’essere la grande risorsa che garantisce la fede e anima la sua realizzazione.

Invocare Dio come Padre (Madre) diventa facile e costituisce una fonte di consolazione; gode inoltre di un’evidenza spontanea. Ciò non si verifica quando si scontra con la realtà dei nostri limiti: sia con la nostra impotenza a essere tutto quello che desideriamo essere, sia con le ferite della sofferenza e dell’ingiustizia. Allora sorge il dubbio e appare la resistenza.

Allora, credere davvero che siamo figli e figlie non è così evidente. Quando ci sentiamo colpevoli davanti a Dio, facciamo come il figliol prodigo: non siamo capaci di credere nel suo amore e trasformiamo in giudice – «trattami come uno dei tuoi salariati» – colui che non smette mai di essere padre. Credere davvero che siamo sorelle e fratelli è talvolta meno evidente, e non sempre, in realtà, lo crediamo. Di fronte alla necessità altrui ci succede di «chiudere il cuore» oppure, nel migliore dei casi, avvertiamo sempre la nostra incapacità di aiutare.

All’invocazione di Dio come Padre Gesù ne unisce subito un’altra: «Venga il tuo Regno». C’è una sottile ambivalenza nelle invocazioni del Padre nostro: non è sempre chiaro se rappresentano una proclamazione affermativa di ciò che Dio sta facendo o una domanda perché lo faccia. Due valenze che sono presenti nel linguaggio. Risulta facile, nella prima invocazione – «Sia santificato il tuo nome» –, leggere un’affermazione. Non così nella seconda – «Venga il tuo Regno» –, che si trasforma facilmente in una domanda.

È assai possibile che tale dualità fosse presente anche nel linguaggio di Gesù, interno alla sua cultura religiosa. Ecco perché è importante passare attraverso le parole per cogliere fino in fondo la sua autentica intenzione. Ciò che in tale intenzione è decisivo è il primato assoluto di Dio, quale appare con chiarezza nell’annuncio che inaugura la sua predicazione: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Proclama quello che Dio sta realizzando e sollecita la nostra risposta e in tal modo ci chiama a credere in essa e a cambiare il nostro comportamento, entrando nel dinamismo divino attraverso il quale si realizza il Regno.

Trasformiamo in supplica la chiamata

Vale la pena ricordare la conferma rappresentata dall’«inno di giubilo», quando Gesù, preso fino all’estasi da una gratitudine infinita per l’amore divino, esclama: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Mt 11,25, Lc 10,21). L’esperienza di Gesù non si risolve in una supplica, ma nel proclamare a tutti la meraviglia per quello che Dio sta facendo. E l’evangelista, che parlerà di Gesù risorto come piena trasparenza divina, gli mette sulla bocca parole che ci spronano a una piena fiducia in Dio: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).

È questa l’intenzione più profonda e autentica dell’annuncio di Gesù. Giungere a essa, ravvivando la fede, confidando nell’attività salvifica di Dio e sentendosi spinti a un’obbedienza accogliente che la trasformi in realizzazione storica: è questo ciò che definisce il significato autentico della preghiera. Ma non risulta facile comprenderlo senza lasciarsi trasportare dalla tendenza spontanea e, deviando dalla sua vera direzione, trasformarla in domanda. Ovvero, ripetiamolo: trasformiamo la chiamata che Dio ci rivolge in una supplica che noi rivolgiamo a Dio.

Di certo, nella realtà viva della preghiera tutto va confondendosi, e abbiamo già detto che, per fortuna, nella stessa domanda può trovarsi implicito un riconoscimento dell’iniziativa divina. Ma ciò non dovrebbe nascondere la trascendenza del problema, sia per rispetto del santo nome di Dio, sia per riconoscimento e attenzione a non ferire la straordinaria tenerezza del suo amore infinito.

Per affinare la nostra sensibilità e cogliere con più precisione dove risiedono le differenze, può aiutarci l’analisi di due ben noti esempi presenti nel Vangelo. L’uno parla della preghiera quando sperimentiamo i limiti della nostra impotenza umana. L’altro, più profondo e delicato, si riferisce a una preghiera posta sulle labbra dello stesso Gesù di fronte all’interrogativo della sofferenza, spesso incomprensibilmente terribile, imposta dall’ingiustizia umana.

«Credo; aiuta la mia incredulità!» (Mc 9,24). Consideriamo qui la scena così come avvenne nel Vangelo, dove quello che si dice può essere preso nel suo senso pieno e corretto: il padre di un bambino epilettico chiede a Gesù che lo aiuti a crescere nella fede. È quanto Gesù ha fatto lungo tutta la sua vita, secondo una normale interazione – di istruzione, di esempio e di aiuto – con i meccanismi della storia umana.

Ma collochiamo questa considerazione nella situazione attuale, allorché, grazie al Vangelo, preghiamo Dio invocandolo come Padre. Allora la riflessione cambia. Siamo coscienti che crediamo, ma non crediamo con tutta la forza, con tutto l’affidamento e con tutto l’assegnamento che vorremmo. Nasce così il desiderio di migliorare. In quanto tale, la reazione è giusta e corretta. Il punto è come gestire questo desiderio. Abituati alle relazioni umane, tendiamo spontaneamente a chiedere aiuto, come accade di solito tra noi: ma quelli che potrebbero aiutare o non ci sono o, se ci sono o sebbene ci siano, non sono disposti a farlo.

Nella preghiera invece la relazione è con Dio, che già sa quello di cui abbiamo bisogno prima che lo chiediamo, come ci ha insegnato Gesù; che, in quanto puro atto d’amore, se anche una madre si dimenticasse, egli non si dimentica, come disse Isaia; e che, secondo il Vangelo di Giovanni, continua a compiere le sue opere sin dal principio del mondo.

Una sottile linea rossa

È questo il punto preciso in cui appare la sottile linea rossa. Infatti, senza volerlo, può succedere che applichiamo alla relazione con Dio criteri semplicemente umani, ignorando il suo carattere unico e rovesciandone completamente il senso: reagiamo chiedendo, supponendo che Dio si comporti come noi. Allora, che lo vogliamo o no, la relazione vera si rovescia, perché in questo modo la realizzazione del desiderio dipende da Dio: se non si realizza, è perché Dio non vuole fare qualcosa che potrebbe fare.

Di qui la reazione di chiederglielo, supplicarlo, ricordargli che… Ma è chiaro che non è questa la relazione che si deve stabilire sulla base della stessa fede che, per quanto imperfetta, abbiamo e professiamo. Grazie a essa, sappiamo che da parte di Dio tutto è già non solo offerto, ma generosamente dato. Quel che può mancare, qualunque cosa sia, rimane solo dalla nostra parte: o perché non sappiamo o non siamo capaci, o perché resistiamo o, peggio ancora, non vogliamo.

Una volta che questa inversione è divenuta evidente, risulta chiaro che ciò che è davvero corretto e salutare, «nostro dovere e fonte di salvezza», consiste nel rispettare la sottile linea rossa. Oggi la nostra preghiera non può più – non dovrebbe – consistere nel ripetere alla lettera davanti a Dio le parole che il padre del bambino ha detto davanti a Gesù. Ora siamo espressamente coscienti che Dio ci sta già aiutando, sempre, e che quello che manca dipende solo dalla nostra risposta, dall’accogliere il suo aiuto e realizzarlo per quanto possibile.

La preghiera ben orientata deve, inoltre, consistere: a) nel ravvivare la fede nella sicurezza di contare sul suo divino aiuto, che non manca mai ed è sempre disponibile e offerto; b) nel cercare di discernere verso quale direzione Dio ci sta orientando e spingendo; c) nel ravvivare la nostra volontà di mettere in pratica quella che ci pare sia una risposta fedele (e, come diremo più avanti, accettare il limite: non sempre è possibile che il desiderio possa realizzarsi, pur non mancando né l’aiuto divino né la positiva risposta dell’uomo).

Allo stesso modo, ne consegue che si formuli la nostra preghiera in modo che esprima con parole sincere la relazione viva che si è stabilita. Ovvero, cercare parole che rendano chiara e che preservino la verità della relazione con Dio, aprendo il nostro essere alla luce, cercando di accoglierlo e di lasciarci aiutare da lui. Ancora una volta: non siamo noi a chiamare, è Dio che chiama e chiede che apriamo la porta alla sua chiamata. Ciò è così grande, così contrario alla nostra cultura fatta di indifferenza, egoismo, esclusione e passività, che ci risulta letteralmente incredibile. Per questo Agostino diceva: si comprehendis, non est Deus (se tu lo comprendi, allora non è Dio).

Comunque, tutto sommato, non sarebbe difficile cogliere il vero orientamento. La difficoltà proviene dall’immaginazione. Gravata com’è da formule ripetute fin dall’infanzia, tutto spinge la preghiera verso la direzione contraria, rendendo complicato formularla bene. Per prima cosa, può succedere che manchino le parole, così che restiamo senza sapere cosa dire. Allora quello che ci vuole non è perdersi d’animo, ma prendere espressamente coscienza della situazione: siamo noi davanti a Dio, davanti al Dio di Gesù, che ci coinvolge con il suo amore e ci sta sostenendo con la sua grazia.

L’immagine di Dio in tante preghiere

Urge mettere mano a questa opera e prendere molto sul serio la trascendenza di quello che è in gioco: l’immagine autentica di Dio, il rispetto del suo santo nome, la gratitudine per la sua tenerezza, il «bene delle nostre anime». E anche – a maggior ragione in una cultura critica e secolarizzata – il destino della fede nel nostro mondo. Un mondo che, non essendo più educato da catechismi e prediche, ascolta e interpreta le preghiere secondo il loro significato normale e corretto, quello che esprimono alla lettera e che è spiegato nei dizionari. Non può stupire che oggi, per molti, risulti quasi impossibile credere nel «dio» la cui immagine è riflessa in tante preghiere.

Di fatto, non nascondo la mia sorpresa per il fatto che i cristiani e soprattutto i teologi e le teologhe non avvertano l’urgenza del problema e continuino a rifiutare la sfida di formulare nuove preghiere, cercando parole, formule ed espressioni che dicano la verità. Sulle prime, esse potranno apparire talvolta goffe o ineleganti. Ma non è così difficile percepire da dove si potrebbe partire.

Prima di tutto, rendersi conto che si può dire tutto, purché si esprima con verità la relazione con Dio Padre. Ad esempio: gratitudine, adorazione, fiducia; e anche le necessità, le mancanze, i desideri, purché lo si faccia sempre avvolgendo tutto con quello che potremmo definire il «ma» della fede: non siamo capaci di, proviamo sofferenza per, vogliamo aiutare e constatiamo la nostra impotenza, non arriviamo a deciderci a… «ma» sappiamo che tu, Signore, sei con noi, che sei tu stesso che ci ricordi queste necessità e susciti in noi questi desideri, che stai sostenendo e spingendo quello che è possibile; appoggiati a te, abbiamo fiducia, vogliamo andare avanti, operare per la venuta del tuo Regno…

Le parole rimangono sempre insufficienti, ma è facile vedere che qui si apre un grande spazio per l’iniziativa, per la comunicazione di esperienze e, in modo del tutto prioritario, per la generosità fraterna di quanti sono particolarmente creativi in questo campo. Creare nuove preghiere, inventare espressioni nuove e suggerire le parole giuste può costituire uno strumento prezioso per rinnovare la fede, ravvivare la speranza e provare a riconfigurare un’immagine di Dio un po’ più conforme al Padre annunciato da Gesù.

Sulla base di quanto detto finora, possiamo accostarci adesso al secondo esempio, ritraducendo le parole di una preghiera che il Vangelo pone sulle labbra di Gesù: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36).

Questa sconvolgente scena, giustamente famosa e abbondantemente commentata, costituisce una sottile cartina di tornasole per affinare il nostro senso della preghiera. L’angoscia che il coronavirus sta procurando all’umanità ci consente di cogliere con speciale forza qualcosa del terribile dramma vissuto da Gesù di Nazaret nell’oscurità di quella notte trascorsa nell’Orto degli ulivi. Uno degli evangelisti arriva a dire che Gesù sudava sangue. E le parole di questa preghiera risultano ancora oggi profondissimamente commoventi. In esse il problema umano del male si mostra in tutta la sua durezza, quale impotenza di fronte alla sofferenza fisica e incomprensione sconcertata davanti alla malvagità umana. Dal canto suo, la dimensione religiosa, in quanto male vissuto davanti a Dio, presenta qui un caso limite – se si pensa al protagonista, «il» caso limite – della domanda sul senso della preghiera davanti al male: perché Dio non interviene? Perché permette questo?

Gesù nel Getsemani

La scena è reale, come lo fu l’angoscia vissuta in quel momento. Non abbiamo invece la sicurezza che quelle parole vengano direttamente da Gesù. Anzi, è improbabile, perché la stessa scena sottolinea che Gesù è solo, isolato, senza nessuno che lo ascolti; e, a causa degli avvenimenti successivi, sappiamo che non è rimasto tempo per le confidenze. Quello che è sicuro è che il senso di questa preghiera corrisponde alla predicazione e alla vita di Gesù. In ogni caso potrebbe averla pronunciata proprio come ci è giunta.

Per quanto riguarda l’interpretazione, questa circostanza risulta a ogni modo positiva, perché rende più facile distinguere tra l’esperienza vissuta nel Getsemani e le parole che la interpretano e cercano di esprimerla nei Vangeli. L’ermeneutica moderna mette in luce il carattere sottile e mai totalmente individuabile di questa distinzione, che non è semplicemente quella riscontrabile tra un frutto e ciò che lo ricopre, o tra una persona e il suo vestito. Ogni esperienza è sempre un’esperienza interpretata. Le parole, poiché riguardano l’interpretazione, portano inevitabilmente il segno della lingua, della cultura e anche della mentalità religiosa, della tradizione e del tempo in cui sono pronunciate o scritte.

Siamo, inoltre, davanti a una preghiera «teologica». Ne consegue che interpretare il suo significato non implica necessariamente prenderla alla lettera. Piuttosto, invita ad avvicinarsi all’esperienza che vi è riflessa, pur sapendo che anche la nuova interpretazione può essere formulata solo in quanto modulata sulle condizioni della presente situazione religiosa e culturale. Consistono in questa difficile impresa, come si è detto, il rischio (Claude Geffré) e il conflitto (Paul Ricoeur) delle interpretazioni, che esigono allo stesso tempo somma modestia e stretto rigore.

Ma la difficoltà non significa ulteriore scetticismo o relativismo, in quanto non è una difficoltà insuperabile. Si tratta d’affinare il rigore e rianimare la responsabilità. Per fare un esempio elementare, si pensi alla traduzione di un testo difficile e il cui tema è profondo. Le traduzioni saranno inevitabilmente diverse, e non si giungerà mai a una traduzione perfetta. Tuttavia, semplificando un poco il ragionamento, sappiamo che si può giungere a una traduzione che risulti accettabile e che ne restituisca il senso fondamentale. Con una sicurezza ancora pià grande, possiamo stare certi che una determinata interpretazione è chiaramente falsa.

Eppure, abbiamo già capito che in questo caso la difficoltà appare immensa, dal momento che presuppone d’avvicinarsi all’abissale esperienza manifestata nella preghiera del Getsemani. Anche solo provarci rimane del tutto fuori dalla nostra portata. Tuttavia, quale che sia il mistero della persona di Gesù, rimangono due fatti certi e fondamentali.

Primo: colui che sta soffrendo è un uomo reale, fatto della nostra stessa carne, che sente e pensa con un cuore e un cervello realmente umani. Secondo: la realtà che egli vive e interpreta è la stessa che viviamo noi, esseri umani che, protetti dal Dio Padre da cui siamo nati e nel quale crediamo, dobbiamo affrontare lo stesso problema di fondo. Come Gesù, siamo feriti dal crudele morso del male nelle sue due feroci espressioni: la sofferenza fisica e la malattia morale. Perciò la lezione di Gesù può essere, e realmente è, valida anche per noi. Per questo motivo il concilio Vaticano II, in una delle sue migliori intuizioni, ha potuto affermare che nel mistero di Cristo si rivela anche il mistero di ogni persona umana.1

Padre… ciò che vuoi tu

In definitiva, accettare e cercare di seguire il Vangelo significa confrontarsi con lo stesso problema, e dunque il senso della preghiera deve corrispondergli. Il senso, non necessariamente le parole. Perché non solo è inevitabile che esse siano segnate da quella situazione, ma, proprio per questo, è nostro dovere considerare le possibilità, i problemi e le esigenze che permettono di attualizzarne il senso in modo che l’interpretazione risulti comprensibile e feconda nella situazione attuale.

Per fortuna, il senso fondamentale si trova mirabilmente riflesso nelle parole poste all’inzio e alla fine della preghiera di Gesù: «Padre» e «ciò che vuoi tu». Riflettono in termini univoci sia la sicurezza dell’amore di Dio sia la decisione d’identificarsi con la sua volontà. Questa percezione, in quei due estremi, non lascia dubbi. Di fatto, è a tal punto percepibile che di questa scena si continua a parlare oggi, poiché tocca i nostri cuori e rende feconda la chiamata. Ecco perché l’interpretazione può nutrirsi di questo sentire e deve restare nel suo orizzonte.

Il problema si pone in questo secondo livello, quello dell’interpretazione attuale, ovvero di come dobbiamo comprendere tale scena oggi, illuminati e sostenuti da come l’interpretò allora Gesù. Per riuscirci, è indispensabile tenere conto della distanza temporale (cf. Hans-Georg Gadamer), riconoscendo i presupposti o pregiudizi religioso-culturali presenti in quell’approccio, i quali non sono né possono essere i nostri.

Nei paragrafi precedenti spero d’aver chiarito che ciò accade in riferimento ai due presupposti fondamentali che compaiono: 1) «Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!», 2) «Però non ciò che voglio io». Entrambi sono propri di una cultura non ancora segnata da un preciso senso dell’autonomia della creatura.

Ciò è evidente soprattutto nel primo. In quella mentalità biblica, l’«interventismo» di Dio nel mondo, sia fisico (può mandare la pioggia come la siccità), sia morale (può imporre castighi o concedere vittorie), era qualcosa di evidente e acquisito. Il male rappresentava un problema, ma faceva anche sentire allora quella che oggi definiremmo una chiara «dissonanza cognitiva»: se tutto era causato da Dio, allora lo era anche il male, il che si scontrava con la fede nella sua bontà.

Tuttavia in questa cultura i credenti si muovevano in un ambiente che non metteva in dubbio la fede nell’esistenza di Dio né nella sua signoria sul mondo e sulla storia. In tal modo questa dissonanza, sebbene anche nella Bibbia avesse suscitato crisi assai gravi, come quella di Giobbe, risultava integrabile in una visione globale: se Dio mandava qualcosa, era nel suo diritto; in una forma o in un’altra, se lo faceva, «era necessario» e doveva avere un suo senso.

Affidamento e dissonanza

La preghiera di Gesù si muoveva entro queste coordinate teologico-culturali. Non possiamo essere certi del modo concreto in cui egli risolse teoricamente la dissonanza; ma tutto lascia pensare che l’abbia fatto entro questa linea tradizionale. Con questa peculiarità: che nel suo caso la dissonanza raggiungeva il grado più acuto. Da una parte, egli condivideva l’idea che Dio potesse evitare il male: «Tutto è possibile a te»; e perciò supplica: «Allontana da me questo calice». Ma, d’altra parte, nel nucleo stesso del suo messaggio si trovava la proclamazione precisa di Dio come Abbà di amore infinito e incondizionato, dal quale non potevano venire che il bene e la benedizione, anche per quanti erano considerati malvagi e peccatori.

Ricordiamo: «Se voi, dunque, che siete cattivi (…) quanto più il Padre vostro che è nei cieli». Ciò che è grande e mirabile è che, malgrado il male che minacciava Gesù fosse letteralmente spaventoso, il suo affidamento al Padre non è venuto meno, tanto da proclamarlo senza condizioni: «Ciò che vuoi tu».

Il processo intimo della sua interpretazione rimane per sempre racchiuso nel mistero di questa sublime scena. Molto probabilmente Gesù trovò aiuto nella pietà dei salmi e nella tradizione dei profeti; sarà stato illuminato anche dalla figura del Servo sofferente del Libro di Isaia. In ogni caso, assumendo, approfondendo e ricreando in ciò che viveva l’affidamento pieno al Padre e la fedeltà inattaccabile alla sua volontà, egli ha potuto superare la dissonanza pensando che tutto accadeva perché «era necessario» (che si ritrova nei Vangeli nel greco dei) e che, per vie magari misteriose, rientrava nel piano divino di salvezza.

Se teniamo presente che, nel suo caso, si congiungevano l’acutizzazione della dissonanza, a causa dell’atrocità del pericolo, e l’insufficienza della soluzione teorica, a causa del condizionamento culturale, siamo ben lontani dall’annullare o indebolire il valore esemplare e la profondità rivelatrice della preghiera di Gesù, ma piuttosto li rafforziamo al massimo grado.

Ecco perché questa preghiera continua a essere percepita come esempio vivo di un affidamento a prova di crisi: qualsiasi cosa accada, compresa l’angoscia più profonda e la situazione più ingiusta e incomprensibile, si può confidare in Dio. La sfida attuale consiste nell’accogliere la lezione insuperabile di affidamento e di fedeltà, ma attualizzando il piano teorico nel quale la dobbiamo interpretare e vivere oggi, calandola nelle esigenze e nelle possibilità della nostra cultura.

Nessun papa, probabilmente, ha parlato così tanto della preghiera come Francesco. Fin dall’inizio del suo pontificato, risuona costantemente l’esortazione a pregare per lui, che ripete in ogni occasione, importante o no. Tale insistenza non resta circoscritta a queste parole spontanee, ma compare anche nei documenti. Nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate raccomanda: «Non togliamo valore alla preghiera di domanda, che tante volte ci rasserena il cuore e ci aiuta ad andare avanti lottando con speranza». E prosegue: «La supplica di intercessione ha un valore particolare, perché è un atto di fiducia in Dio e insieme un’espressione di amore al prossimo».2 Quando non era ancora papa aveva scritto: «Negare che la preghiera di domanda sia superiore alle altre preghiere è la superbia più raffinata, perché solo quando chiediamo ci riconosciamo creature».3

La preghiera di papa Francesco

Se ci fermiamo alle parole, sembrerà che ciò che ho detto debba essere considerato come una sorta di critica o di ridimensionamento della sua dottrina. Ma è chiaro che in nessun modo ho questa pretesa. Non l’avevo nelle pagine precedenti, quando, «con timore e tremore», mi sono avvicinato alla preghiera del Getsemani. Tanto meno posso averla ora. Ma anche in questo caso credo che sottoporre la lettera a un’analisi critica costituisca il modo migliore di recuperare e preservare l’intenzione autentica ivi contenuta.

È sufficiente leggere le quattro pagine che, sulla base di colloqui personali, Fernando Prado Ayuso, in un suo recente libro, semplice ma lucido ed empatico, dedica alla prassi di preghiera di papa Francesco.4 Si comprende qui la semplicità evangelica e la profonda verità dello Spirito che stanno dietro alle sue parole. Lo esprimono bene quelle che l’autore ha scelto come titolo del libro: «Non possiamo smettere di respirare»: la preghiera è il vero respiro nella sua vita.

Con una lettura un minimo avvertita a proposito della distinzione tra il registro dell’affidamento e quanto si muove nella logica astratta basterebbe un attimo per mostrare che tutta l’enfasi di Francesco è posta nel primo. In quelle stesse frasi in cui afferma la necessità della domanda, mostra subito che intende confermarci sui valori del primo registro: rasserena il nostro cuore e ne nutre la speranza.

Quanto all’intercessione, che nel registro logico potrebbe introdurre l’orazione nel mondo buio delle raccomandazioni o addirittura della corruzione, egli la difende in quanto esprime amore per il prossimo e spinge al compromesso fraterno. Mentre le parole stranamente dure – «la superbia più raffinata» – contro la critica alla domanda si basano sulla preoccupazione che ciò comporti il non riconoscersi creature.

Confido che, dopo queste mie riflessioni, risulti ovvio che rinunciare alla domanda – solo a quella! –, lungi dal negare o indebolire questi valori, li afferma in maniera esplicita e diretta. E inoltre, non solo li ripulisce dalle false escrescenze, ma oggi rappresenta l’unica reale possibilità di difenderli tanto dagli abusi interni quanto dalle dure ma facili accuse esterne. Ne è prova il fatto che persistere nella domanda sta provocando una quantità di atti e di celebrazioni, a fronte della terribile situazione che l’umanità sta vivendo, che non appaiono liberi da un miracolismo anacronistico né riescono sempre a sottrarsi al pericolo di offrire una caricatura della vera fede.

È questo risultato che, certamente, è contrario al senso autentico e alla vera intenzione che Francesco cerca di sostenere. Per verificarlo, è sufficiente contemplare il suo richiamo alla preghiera con lo sguardo pulito e una cordiale sintonia. È facile mostrare che essa consiste sempre in un’incessante e appassionata esortazione a promuovere l’affidamento alla compassione amorevole di Dio, che è sempre e indissolubilmente unita all’impegno verso i fratelli, specie quelli che soffrono, gli svantaggiati, gli scartati.

Un esempio quasi insuperabile

In questo senso, la meditazione pronunciata durante il Momento straordinario di preghiera in tempo di epidemia che il papa ha presieduto in piazza San Pietro il 27 marzo scorso rimane un esempio quasi insuperabile. Si prestava bene il simbolismo della scena evangelica scelta, con Gesù sulla barca, apparentemente addormentato, e i discepoli angosciati in mezzo alla tormenta. La meditazione pone il cuore dell’orazione nella sua vera prospettiva: chiamata all’affidamento a Dio nella solidarietà con i fratelli. Si noti che è Gesù, e in lui Dio, a prendere l’iniziativa; è Gesù che ci convoca, ci interpella e ci invita a svegliarci, è lui che ci chiama alla solidarietà e alla speranza, ci chiede di affidarci e di non avere paura.

Parlo di un esempio «quasi insuperabile» perché nella forma rimangono ancora dei tratti il cui movimento sembra andare da noi verso Dio e non da Dio verso di noi. Mi spiego con un’osservazione, un poco banale ma significativa, a proposito di un passaggio curioso. Il papa parte dal registro dell’affidamento, in quanto è Gesù che, essendo presente, ravviva ed esorta: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Ma dopo, senza preavviso e senza rispettare minimamente le esigenze del registro logico, inverte la prospettiva, ponendo Gesù fuori dalla barca e mettendo l’iniziativa nelle mani dei discepoli: «Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite».

La semplicità stessa, puramente casuale, dell’esempio indica che, in realtà, il problema non è di sostanza, ma di forma (o, se vogliamo, d’inerzia) teologica. La prova sta nel fatto che, quando prevale la vita reale, il linguaggio recupera il suo vero senso: «Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza». Conviene insistere e vedere come, malgrado le numerose espressioni verbali che sembrano andare in senso contrario, è questo il dinamismo sostanziale che muove la preghiera di Francesco.

Vale la pena citare due passaggi che, a motivo del loro esplicito carattere riflessivo, confermano in modo chiaro e convincente la mia tesi. «Pregare sempre, ma non per convincere il Signore a forza di parole! Lui sa meglio di noi di che cosa abbiamo bisogno! Piuttosto la preghiera perseverante è espressione della fede in un Dio che ci chiama a combattere con lui, ogni giorno, ogni momento, per vincere il male con il bene».5 «Insistere con Dio non serve a convincerlo, ma a irrobustire la nostra fede e la nostra pazienza, cioè la nostra capacità di lottare insieme a Dio per le cose davvero importanti e necessarie. Nella preghiera siamo in due: Dio e io a lottare insieme per le cose importanti».6 La preghiera cristiana è soprattutto un lasciare spazio a Dio, permettendogli di manifestare la sua santità in noi e facendo crescere il suo Regno a partire dalla possibilità di esercitare la sua signoria d’amore nella nostra vita.

Francesco è un papa pastore ed è comprensibile che in lui primeree (prevalga) il registro dell’affidamento. Desidera ravvivare il contatto con Dio, così che sperimentiamo la gioia della sua bontà, l’affidarsi alla sua compassione e l’impegno d’amore verso i fratelli. Si dedica anima e corpo a promuovere questi valori. Il suo atteggiamento fa venire in mente Vaste monde, ma paroisse, un libro scritto da Yves Congar negli scorsi anni Sessanta, nel quale affermava che la parrocchia era per lui un vasto mondo.7 Il soffio dello Spirito ha condotto Francesco a Roma dal confine opposto del pianeta, trasformandolo nell’autentico parroco del mondo.

Combattere la dissonanza

Un mondo del quale è chiamato a educare la fede all’interno di una nuova cultura, molto attiva nella critica della religione e sottoposta a un intenso processo secolarizzante. Si rende necessario un nuovo equilibrio che, mantenendo l’affidamento, non escluda la logica. Diversamente, risulterà sempre più difficile per i fedeli mantenere intatta l’immagine del Dio abbà annunciato da Gesù. Francesco riunisce in sé la fede aperta di Giovanni XXIII e la sensibilità modernizzatrice di Paolo VI, ed è protagonista di un’inedita creatività espressiva. Si trova perlomeno nelle condizioni di avviare un rinnovamento del modo di parlare.

Di sicuro risulta impossibile compiere quest’opera tutta in una volta. Tuttavia sarebbe bene rendersi conto del problema e contribuire a uno dei grandi «processi» che egli sta mettendo in moto. Per quanto sta in lui, grazie alla forza contagiosa del suo affidamento e alla vitalità del suo linguaggio, vi riesce più di quello che potrebbe sembrare a prima vista. Di certo non ha paura di ricorrere a espressioni sorprendenti, come ad esempio l’immagine di Dio che sta alla porta nell’Apocalisse. Con un geniale volo di eloquenza la capovolge, affermando che, in realtà, Dio non si trova fuori, ma che chiama da dentro.

Mettendosi in sintonia con l’attuale superamento del dualismo soprannaturalista, non solo sottolinea in tal modo l’iniziativa divina, ma mostra che essa nasce nell’immanenza creatrice, amorevole e sempre manifesta di Dio che insiste per essere accolto. Ovvero, afferma con energia ancora maggiore il messaggio che sarebbe assurdo chiedergli di entrare.

Si trovano comunque nelle sue mani due cose importanti. La prima è iniziare il rinnovamento dei libri liturgici, attualizzando le preghiere e operando l’urgente revisione delle letture (sto finendo di stendere queste pagine dopo aver partecipato all’emozionante celebrazione papale di questo strano Giovedì santo: ancora una volta mi sono chiesto con un brivido come sia possibile che continuiamo a proclamare letture che ritraggono Dio mentre causa la morte di tutti i primogeniti d’Egitto).

La seconda è mobilitare i teologi e le stesse comunità affinché partecipino alla creazione di nuove orazioni e di nuove celebrazioni che giungano alla riconfigurazione di un immaginario collettivo che rispetti il santo nome di Padre (Madre) e che goda della sua compassione e della sua tenerezza.

Ma il Francesco «parroco del mondo», a causa del suo impegno senza riserve a favore degli svantaggiati è anche, oggi, la voce più viva e autentica della coscienza etica e morale dell’umanità. In questo senso è sempre più urgente un’attenzione speciale al linguaggio della preghiera, in modo che la dissonanza nel registro della logica non oscuri la trasparenza universale del suo messaggio.

Con una sintonia chiara e coinvolgente, egli riconosce e proclama la grandezza umana della generosità esplosa oggi in tante persone, che stanno mettendo in gioco la loro vita a favore degli altri. La sua parola è forse nelle condizioni migliori per aiutare tanti a scoprire la gioia di sapere che in questo impegno sono mossi e accompagnati dall’amore di un Dio che altro non vuole se non la vita e la felicità di questa umanità, la cui condizione presente è così dura e dolorosa.

«Il male è la roccia dell’ateismo»

Il cambiamento culturale comportato dall’avanzata, lenta ma inarrestabile, della modernità ha implicato un cambiamento irreversibile a proposito del problema del male. Il piano teorico, che in precedenza rimaneva assorbito e assimilato da un affidamento basato sull’evidenza e sulla plausibilità socioculturale della fede, ha fatto valere tutta la sua rilevanza.

Lo sviluppo dello spirito critico, a partire dall’Illuminismo, ha fatto comparire la possibilità dell’ateismo, così che l’affidamento soggettivo non è più bastato a nascondere o assorbire la difficoltà teorica. La contraddizione tra l’esistenza terribile del male e la fede in un Dio che, pur essendo onnipotente e infinitamente buono, non l’impediva, lo consentiva o addirittura lo inviava, era troppo forte da poter essere ignorata.

Fatalmente, in breve tempo il problema sarebbe esploso. In riferimento a ciò mi è venuta la curiosità di vedere cosa scriveva, nel XVI secolo, Francisco Suárez, nella sua ampia Disputatio metaphysica XI, intitolata De malo. Presenta delle sottili ed eruditissime considerazioni metafisiche sull’essenza e le cause del male. Vi compaiono anche riferimenti metafisici a Dio come causa ultima e creatrice di tutto; ma non una parola intorno all’idea che il male potesse mettere in questione la sua esistenza.

Poco tempo dopo, nel XVII secolo, Leibniz, rispondendo ai dubbi lancinanti di Bayle, scrisse a difesa della fede cristiana in Dio la Teodicea. L’intento era geniale, ma fu ridicolizzato in forma libellistica (cogliendone qualche difetto e senza comprendere il suo vero significato) da Voltaire nel Candide. Questa critica, accolta da molti filosofi e storici secondo un’abitudine comoda e ripetitiva, ha fatto sì che il percorso avviato da Leibniz non fosse intrapreso dai teologi, che rimasero prigionieri dei vecchi argomenti. Il risultato fu che nell’Ottocento Büchner poté sentenziare: «Il male è la roccia dell’ateismo».

Questa sequenza storica ha dell’incredibile. La contraddizione che il problema reca in sé, così come si presenta di solito, risulta evidente; e altrettanto lo risultano gli effetti deleteri di una mancata risposta teologica all’altezza della nuova situazione culturale. Ogni volta che si scatena un terremoto, si denuncia il naufragio di un altro barcone di immigrati… o allorché compare il COVID-19, la contraddizione si trasforma in un’arma letale contro la fede in Dio. Nel migliore dei casi, sconvolge la fede dei credenti, che si ritrova teologicamente disarmata. Con una sincerità che fa loro onore, un gruppo di sacerdoti amici l’ha riconosciuto: «Ci preoccupa molto quello che sta succedendo, fino a interrogarci su Dio».

La teologia e il dilemma di Epicuro

È ancora più incredibile che la teologia non voglia rendersi conto della fatale serietà del problema, comprendendo che la difficoltà è reale e che, se non la si risolve fino in fondo, la fede risulta oggi culturalmente impossibile. Fino a che, infatti, permane il pregiudizio che Dio potrebbe, se volesse, porre termine a tutto il male del mondo, nessuno può più credere alla sua bontà senza essere costretto a negare la sua potenza (nessuno crederebbe alla bontà di un eminente ricercatore che, potendo oggi mettere fine al disastro causato dal COVID-19, si rifiutasse di farlo, per motivi alti o anche nascosti).

Stupisce allora, insisto, che la teologia, anziché dedicarsi col massimo rigore a sciogliere l’equivoco, continui a mantenerlo, sebbene esso sia dietro, indirettamente e inavvertitamente, a molti ragionamenti intorno al problema del male. Non accade solo nell’immaginario diffuso, ma anche nei saggi teologici. Fino al punto che grandi teologi possono continuare a parlare di domandare conto a Dio per la sofferenza dei bambini innocenti (Guardini, sul letto di morte), o a dire che non sarebbe assolto da un tribunale umano (Rahner, citando Guardini); o anche ad affermare che nel Getsemani Dio si comportò come Giuda (Barth), e che si deve dire che su colui che lottava nell’Orto degli ulivi si è riversata l’ira di Dio (von Balthasar).

Penso sia chiaro che se riporto questa tetra litania, che potrebbe allungarsi ancora, non è per parlare male di teologi ai quali tanto dobbiamo (quandoque bonus dormitat Homerus…). Ma credo che sia indispensabile insistere sull’urgenza del problema: conclusioni così incredibilmente deviate tradiscono un assai grave errore nelle premesse. S’impone la necessità d’impedire che la mancanza di chiarezza continui a radicarsi, diffondendo un veleno che subdolamente deforma l’immagine di Dio, contaminando i principali ragionamenti teologici e mettendo a repentaglio la credibilità del Vangelo.

La difficoltà è così reale e così grave che non è mai rimasta nascosta alla coscienza religiosa, la quale ha cercato diverse soluzioni. In generale, quando l’immagine divina è in crescita, si tende a scagionare Dio, attribuendo le responsabilità ad altri soggetti. Essi possono essere sovrumani, come il «dio cattivo» dei dualismi e i vari esseri demoniaci. Oppure la responsabilità può essere posta nell’essere umano, che riceve un castigo per una qualche colpa, come nel racconto mitico della Genesi (in questo caso con un influsso demoniaco).

Quando il pensiero si fa più riflessivo il problema diventa più acuto. Può raggiungere accenti religiosamente drammatici nel libro di Giobbe, o filosoficamente radicali nel dilemma di Epicuro: se Dio può ma non vuole, non è buono; se vuole ma non può, non è onnipotente… Ma rimaneva sempre intatto il pregiudizio secondo il quale Dio potrebbe, se volesse. Questo pregiudizio era allora rafforzato dall’idea dell’interventismo di Dio, ovvero di un suo influsso diretto sugli avvenimenti del mondo e della storia: tutto è pieno di dèi, dicevano i greci, mentre nella Bibbia gli interventi divini nella vita umana sono continui. In tale ambiente culturale il dilemma era difficile da superare.

Può sorprendere che tale visione, la quale di per sé non permetterebbe di respingere l’obiezione posta al dilemma, non abbia impedito che il pregiudizio venisse assimilato da tutta la cultura premoderna. La ragione di ciò consiste nel fatto che in tale cultura, con pochissime e ambigue eccezioni, l’esistenza di Dio (degli dèi, del divino) si giovava tanto dell’evidenza culturale quanto della plausibilità sociale. Malgrado sia così penetrante e ci appaia oggi con tanta forza, quell’obiezione poteva essere assimilata al livello esistenziale: nel mondo greco né Epicuro, che ha proposto il dilemma, né Sesto Empirico, che l’ha analizzato bloccando tutte le vie di uscita da esso, né Lattanzio, che l’ha trasmesso alla teologia, né gli altri teologi che l’hanno affrontato, compreso Tommaso d’Aquino, hanno avvertito che esso mettesse in discussione la loro fede.

Un mondo-senza-male?

Ma la situazione della cultura moderna è diversa. Ora non è più possibile eludere la logica del dilemma. L’unica reale via d’uscita consiste nel romperlo e nel dimostrare che è falso. Per fortuna, è lo stesso cambiamento culturale che gli ha dato virulenza a consentirci di farlo. A un’analisi realmente critica e attuale ci si renderà immediatamente conto di una trappola: il dilemma nasconde un pregiudizio premoderno. Di fatto, dà per valida a priori e senza verificarla l’immagine secondo la quale è possibile un mondo-senza-male.

Quel che sorprende è che il carattere occulto e acritico del pregiudizio fa in modo che tale immagine colpisca allo stesso modo i credenti tradizionalisti e gli atei progressisti. Infatti entrambi – gli uni per attaccare Dio e gli altri per serbare la fede nella sua esistenza – continuano a dare questa possibilità per scontata. E questo malgrado, una volta sottoposta a un esame un minimo attualizzato, ne appaia evidente il carattere anacronistico e criticamente caduco. Perché un mondo-senza-male oggi non può che essere considerato un «fossile» culturale, un reperto mitico di paradisi religiosamente primitivi o di fantasie freudianamente infantili.

Si tratta chiaramente di un ramo secco che, in pratica, nessuno prende più sul serio, e che si conserva perché è come criptato nelle consuetudini ereditate dalle discussioni in tema di teodicea. Anzi, a ben vedere si conserva solo in esse. Nel pensiero moderno vero ed effettivo, a cominciare da Spinoza – ogni determinazione è una negazione –, passando per Hegel e per il suo concetto di contraddizione, l’idea di un mondo-finito-senza-male è impossibile e contraddittoria quanto quella di un legno-di-ferro o di un cerchio-quadrato.

L’impossibilità risulta più difficile da cogliere rispetto al mondo a causa della sua complessità: i miglioramenti parziali e i progressi concreti coprono l’impossibilità generale e di principio. Se ci si sottrae all’ideologia che pesa su queste discussioni, tale impossibilità è parte delle attuali evidenze: i sociologi sanno che una società perfetta è un’utopia; i biologi e i cosmologi sanno che non esiste evoluzione senza conflitti e catastrofi… e anche il senso comune riconosce che o si tira o si molla, e che per fare la frittata si rompono le uova.

Eppure il passaggio al rinnovamento continua. Peccato che la Riforma, avendo Lutero evocato il deusabsconditus e la sfiducia nei confronti della ragione, con la rinuncia a qualsiasi tentativo di una «teologia naturale», non sia stata in tal senso di aiuto. Nella Controriforma cattolica la neoscolastica sprecò le sue energie in dispute tanto sottili quanto anacronistiche a proposito della «premozione fisica» o della «scienza media». Sono già state citate le conseguenze implicite alle quali, talvolta e senza volere, possono giungere i teologi, accusando indirettamente Dio di essere la causa del male nel mondo o di consentirlo. Altre resistenze, più dirette, si manifestano con il dichiarare apertamente l’impossibilità della teodicea o anche con il denunciare il suo carattere d’impresa arrogante e persino balsfema.

Fondare una nuova teodicea

Nel retroterra teologico l’influsso di questa consuetudine rimane. La teologia dialettica ha creato un ambiente che tende a squalificare qualsiasi intento di critica attualizzatrice come una pretesa di porsi diabolicamente al di sopra di Dio per giudicarlo: nel cattolicesimo, sforzi come quelli di Armin Kreiner, ad esempio, alla ricerca di un maggiore rigore razionale, si scontrano con l’accusa di (eccessivo) razionalismo; obiezioni davvero lucide come quelle di Karen Kilby rimangono trattenute nella sua opera da un antifondazionalismo che ne sminuisce le conseguenze.

Malgrado la loro arbitraria schematicità, questi riferimenti storici permettono di comprendere che è opportuno avviare nuovamente l’elaborazione della teodicea. Una volta che si è fatto emergere il pregiudizio tradizionale, è doveroso cercare una comprensione realmente moderna, partendo dalla solida base – come ho detto, la sua evidenza in realtà è comunemente riconosciuta – dell’impossibilità di un mondo-senza-male.

Infatti, già a prima vista si intende che è possibile un cambiamento radicale ripetto al problema: affermare oggi che Dio non è buono od onnipotente, perché non ha fatto un mondo perfetto, equivale ad argomentare che non lo è perché non vuole disegnare cerchi-quadrati o non può fare legni-di-ferro.

Se, da un punto di vista critico, questa affermazione manca di senso, la questione cambia in modo radicale. Allora, l’unica domanda corretta (sebbene l’espressione sia forzatamente antropomorfica) è: perché, sapendo che un mondo, se esiste, deve essere finito e dunque esposto al male, Dio, ciononostante, lo crea? Il mistero non viene svelato; ma sembra collocato al suo posto. Presenta una domanda reale e, per ciò stesso, è aperto alla possibilità di una risposta realista. Da una parte, può attingere con rigore a ciò che crediamo e sappiamo di Dio e della sua relazione con noi. Dall’altra parte, gioca a suo favore la coscienza dell’autonomia creaturale, ovvero, delle leggi che determinano i meccanismi e le possibilità del mondo.

Se solo si tiene conto delle conseguenze della nuova situazione e le si assume risulta possibile una teodicea che sia all’altezza delle possibilità e delle esigenze della cultura moderna. Dovrà comprendere tre passi principali: 1) fondare il punto di partenza, dimostrando sistematicamente l’impossibilità di un mondo-senza-male (ponerologia); 2) comprendere l’intenzione e il valore dell’atteggiamento tradizionale (via breve della teodicea); 3) integrare entrambi i passi in una versione d’insieme criticamente attualizzata (via lunga della teodicea). È evidente che non è questo il luogo per esporre una tale teodicea nel dettaglio. Mi soffermerò, in modo perlopiù allusivo, agli aspetti più innovativi e connessi al tema della preghiera.

In realtà, le cose fondamentali sono già state dette. Il carattere mitico e premoderno del pregiudizio che rende impossibile il rinnovamento risulta chiaramente visibile, perché si scontra con la coscienza moderna dell’autonomia delle leggi che reggono il mondo fisico e delle possibilità della libertà umana. Un mondo nel quale i limiti di una realtà non si scontrano mai con quelli dell’altra e dove una libertà finita non potrebbe mai agire male… sarebbe un mondo nel quale i cerchi potrebbero essere quadrati e tutte le libertà sarebbero sempre dei modelli incontaminati di etica e di santità. In definitiva, non sarebbe altro che una fantasia dell’immaginazione e una contraddizione della ragione.

Il coronavirus colpisce tutti

L’importanza fondamentale di questa constatazione risiede nel fatto che scioglie un equivoco profondamente radicato nella cultura: pensare che il male rappresenti, in modo diretto e immediato, un problema religioso che, in genere, finisce per essere utilizzato come arma contro Dio. In realtà, è ovvio che il male costituisce un problema comune e fraternamente umano. Tutti i bambini piangono quando nascono, a prescindere dalla religione dei loro genitori, e nessun essere umano, uomo o donna, sfugge alla sofferenza o alla morte, né può evitare d’incorrere in una qualche colpa o di patire una qualche ingiustizia.

Di qui la necessità di introdurre la ponerologia (dal greco poneros, male), ovvero un trattato sul male come problema che, di principio, colpisce tutti e indistintamente in quanto umani. E colpisce prima di qualsiasi appartenenza religiosa o non religiosa, credente o atea. Quello che cambia sono unicamente le risposte, ovvero i diversi modi in cui la vita e il suo senso vengono messi di fronte a questa dura e inspiegabile sfida.

È evidente che obbliga tutti, senza fare distinzione di credo o d’ideologia, a cercare di rispondere, all’interno di una visione globale dell’esistenza: entro una visione del mondo o, prendendo la parola nel suo ampio senso filosofico, entro una «fede». E in questa prospettiva, è fede tanto quella dell’ateo Sartre, che afferma che il mondo è un assurdo, quanto quella dell’agnostico che dice «non so», o quella della persona religiosa che trova in Dio la soluzione definitiva. Sono opzioni diverse davanti a uno stesso problema comune.

Di principio, ognuno di costoro ha lo stesso diritto, e ognuno ha ugualmente la stessa necessità di elaborare le ragioni su cui si appoggia: deve «giustificare» la sua «fede». Attingendo a un neologismo, inventato ad hoc, si potrebbe affermare che ogni presa di posizione di fronte al male ha bisogno di una «pistodicea» (dal greco pistis, fede, e dikein, giudicare). In tal modo la risposta religiosa appare per quello che è: una tra le altre risposte umane al problema comune. Quella che normalmente chiamiamo teodicea è propriamente la pistodicea cristiana, che ha il suo specifico nel fatto che cerca di giustificare la fede in Dio come risposta ultima al problema del male.

Possono sembrare solo disquisizioni, ma questa chiarificazione ha una conseguenza umanamente straordinaria: il vero problema non consiste nell’attaccare le opzioni degli altri ma nel cercare di provare la verità e il valore dell’opzione che si assume. Rendere ragione di essa agli altri è importante; ma solo se – superando vizi inveterati – non lo si fa in polemica, ma con spirito fraterno, in dialogo tra le ragioni e nella ricerca della collaborazione. La ponerologia fa vedere che, anche tenendo conto delle differenze nelle visioni del mondo e nella «fede», esiste prima di tutto questo spazio previo e comune, dove tutti ci sentiamo uniti di fronte allo stesso problema fraternamente umano.

La crisi del coronavirus si trasforma così in una lezione, dura ma salutare, che ce lo sta ricordando. E la si può vedere come un’autentica «epifania», in quanto sta facendo emergere da ogni parte iniziative generose, che mostrano che l’unico atteggiamento realmente umano consiste nell’unire le forze e le speranze di fronte alla sofferenza e all’angoscia di tutti. Affrontare il male costituisce la lotta inevitabile compiuta da esseri finiti la cui libertà è finita.

Il registro dell’affidamento

Confesso d’essere arrivato in ritardo a tenere conto di questa «via», della quale nessuno parla nel momento in cui affronta teologicamente il problema del male. E di non aver neppure misurato, all’inizio, la sua importanza. Mi interessava il fatto, al quale mi sono già richiamato, che per secoli, conoscendo il dilemma di Epicuro e senza disporre di una vera soluzione logica, grandi teologi e autentici credenti non ne abbiamo tratto turbamento rispetto alla loro fede né abbiano ritenuto necessario affrontarlo con un rigore esplicito e sistematico.

È ovvio che sarebbe ignobile pensare a una «mala fede» sartriana, ritenendo che essi si siano mossi così per dissimulare o prendere una falsa via d’uscita. Doveva esistere una ragione di fondo che fosse valida e che giustificasse la fede senza sentirla smentita da quell’obiezione.

La spiegazione si trova, senza dubbio, nella ricchezza e nella complessità della realtà umana, che nei suoi ragionamenti non ricorre a un unico registro. Il registro della logica astratta è certamente molto importante. Ma solamente nel suo campo, sebbene questa ovvietà oggi sia messa in ombra dal predominio improprio della logica scientifica o scientista. Accanto a essa, nella vita reale, c’è anche e non meno importante la logica dell’affidamento. All’interno del suo registro tale logica non è meno rigorosa quanto ai processi né meno sicura quanto alle conclusioni. Nei casi nei quali può esplicarsi liberamente, giunge fino all’evidenza: per quanto mi riguarda sono sicuro dell’amore di mia madre quanto lo sono del teorema di Pitagora.

È doveroso e indispensabile distinguere bene i registri. L’unica esigenza, come fortunatamente ci ha insegnato la fenomenologia, è quella di mantenere con rigore l’intenzionalità specifica nell’uno e nell’altro caso. È qui che si colloca la via breve della teodicea, in quanto risposta che di fronte alla sfida del male si appoggia all’affidamento.

Lo si può concretizzare con un semplice esempio: se entrando in una casa vediamo una madre che veglia al capezzale di un bambino malato e piange addolorata, traiamo spontaneamente una doppia conclusione: «siamo sicuri» che l’apparente passività della madre non va tradotta in un dubbio sul suo amore; e «sappiamo» anche che sta facendo tutto il possibile per evitare quella sofferenza.

È chiaro che emerge immediatamente l’obiezione: la madre non può, ma Dio sì. La reazione è comprensibile e lo stesso dilemma di Epicuro dimostra che è sempre stata avvertita. L’attuale differenza si basa sul fatto che prima della modernità il registro dell’affidamento funzionava con abbastanza forza da avvolgere nella logica concreta della vita la durezza della possibile obiezione teorica. Come ha detto Blondel, gli esseri umani sono spesso capaci di fare in pratica quello che in teoria non sanno e non comprendono con chiarezza. Anche senza che fosse stato chiarito teoricamente il suo influsso, l’efficacia dell’affidamento prevaleva sull’influsso della logica astratta.

A seguito del cambiamento culturale questa prevalenza non è più garantita. L’equilibrio di un tempo è rimasto sovvertito, sia perché i credenti sono essi stessi parte della cultura attuale, molto secolarizzata, sia e soprattutto a motivo della critica generalizzata rivolta contro la religione. L’affidamento non può più eludere le legittime pretese del livello logico. Se il dilemma non viene sciolto in maniera esplicita e rigorosa, il solo affidamento non è sufficiente a superare la sua sfida.

Il registro della logica astratta

Di fatto è questo che accade, con le gravi conseguenze che si stanno rivelando. Esse riguardano in primo luogo la coerenza della teologia, come appare, da una parte, nelle citate affermazioni di grandi teologi, e dall’altra nella situazione aporetica della teodicea. E riguardano soprattutto la vita stessa della fede, abbandonata senza alcuna efficace difesa alle accuse che trasformano il male nella «roccia dell’atesimo».

Questa situazione non vanifica il valore della via breve, in quanto l’affidamento a Dio appartiene all’essenza della fede cristiana e non smette di essere il grande fondamento della sua validità. Ma, proprio per continuare ad affermare la fede e a garantire la sua coerenza, essa esige di essere attualizzata, completando l’affidamento con una risposta logica all’altezza della sfida della critica moderna. Perché, di sicuro, ancora non si riconosce la radicale novità della situazione.

Di fronte alla sfida del male, la teodicea continua a non distinguere in maniera esplicita e rigorosa i due registri, e tale conclusione rende i suoi argomenti inefficaci e facilmente confutabili.

Per compendere quanto tale interazione sia importante, e limitandoci al problema della sua connessione con il modo di pregare, non c’è nulla di più efficace che analizzare come la confusione colpisce anche il riferimento più profondo e coinvolgente di cui il cristianesimo dispone: la passione e la morte di Gesù.

Ad esempio James Martin, in un recente articolo che ha avuto grande risonanza,8 comincia col riconoscere che non sappiamo, che non possiamo comprendere Dio, per concludere: «Ma se il mistero della sofferenza è incontestabile (unanswerable), dove può andare il credente in tempi come questi? Per il cristiano e forse anche per gli altri la risposta è Gesù».

È evidente che questo riferimento, pur essendo in sé vero, non risulta valido, perché risponde col registro dell’affidamento a un’obiezione che si muove nel registro della logica astratta. Dedurre che il male non rappresenta un argomento contro la fede perché Gesù ha dato la sua vita per noi e per la nostra salvezza e dunque Dio stesso si è identificato con la sofferenza umana non risponde all’obiezione attuale.

Si espone inoltre a un ribasso che può arrivare fino al cinismo, perché non ha alcun valore che qualcuno faccia un enorme sacrificio per togliere di mezzo un male che, prima che accadesse, poteva essere evitato. Nell’Ottocento spagnolo, una satira narrava di un capitalista che aveva fondato un ospedale per curare i poveri… che prima aveva fatto ammalare.

S’intende che, così come prima non si trattava di negare il valore della preghiera di domanda, tantomeno ora si nega quello della via breve della teodicea. È proprio il contrario: si tratta di garantire e di riaffermare il suo pieno diritto, distinguendo in modo esplicito i due registri.

In tal modo si ottengono due obiettivi: 1) dimostrare che il dilemma non colpisce questa via e neppure la sfiora, perché non tocca la ragione precisa su cui essa si appoggia, cioè l’affidamento all’amore di Dio; 2) dimostrare inoltre che l’obiezione non è valida nel suo stesso registro logico, perché essa pure rimane prigioniera del pregiudizio premoderno che sia possibile un mondo-senza-male (risulta effettivamente anacronistico negare l’esistenza di Dio perché non vuole o non è capace di creare il «cerchio quadrato» di un «mondo-senza-male»).

Un Dio impotente?

Su questo punto vale la pena fare riferimento a un esempio molto noto nonché coinvolgente, nelle sue intenzioni: l’affermazione di Albert Camus ne La peste: «Mi rifiuterò fino alla morte di amare questa creazione dove i bambini vengono torturati». Si noti che non dice «mondo», ma «creazione»; e non dice che «soffrono», ma che «vengono torturati». Pronunciata all’interno di un terribile sospetto o accusa contro la fede (che ricorda una frase non meno famosa di Dostoevskij), certo in modo non conscio racchiude dentro si sé la convinzione che di ciò sia responsabile Dio, che poteva creare un mondo nel quale cose come queste non sarebbero state possibili.

Ma qui ci interessa soffermarci a considerare due conseguenze che consentono una teodicea opportunamente attualizzata. La prima consiste nel preservare l’integrità dell’immagine stessa di Dio. L’incapacità di dare una risposta valida al falso dilemma ha fatto sì che molti teologi siano arrivati a negare l’onnipotenza divina, al punto che è diventato di moda, anche tra i predicatori, parlare della «impotenza» di Dio e dire che egli stesso sarebbe sottoposto alla sofferenza. Questa posizione suppone una sensibilità religiosa, in quanto proclama che Dio non è né può essere indifferente alla sofferenza umana, e suppone anche un’onestà logica, dal momento che continua ad ammettere la possibilità di un mondo-senza-male.

Ma cade nell’assurdo teologico di pensare, da una parte, un dio impotente e dunque, in definitiva, incapace di crearci e di salvarci; e dall’altra parte di rendere eterna e assoluta la sofferenza, che resterebbe eternamente senza un possibile rimedio (Rahner avvertì con giusta ragione che non servirebbe a nulla un dio impantanato nella nostra stessa miseria).

Abbiamo già visto come la ponerologia, rifiutando il dilemma di Epicuro, rende superflue ulteriori spiegazioni al riguardo. Mi piacerebbe anche fare presente che non solo permette di affermare con totale logica l’onnipotenza divina, ma che fa risplendere ancora di più la gloria del suo infinito amore di Padre (Madre).

Creando per amore, sapeva (lo diciamo con un antropomorfismo) che le sue creature sarebbero state esposte al morso di un male inevitabile. Ma le ha create perché, nella sua sapienza infinita, sa che, malgrado il male, l’esistenza sarebbe valsa la pena; nel suo amore senza condizioni è disposto a rovesciare sé stesso per aiutarci (la Bibbia, letta correttamente, non parla d’altro); e nella sua onnipotenza risuscitatrice è capace di liberarci in modo pieno e definitivo dal male nella comunione ultima, quando, liberi dalla condizione fisica della finitezza, egli sarà «tutto in tutti». Allora questo mistero reale risulta possibile, giacché grazie a Gesù crediamo che, oltre la morte, Dio accoglie la nostra «infinità in fuoco e aspirazione», avvolgendola per sempre nell’oceano infinito del suo amore.

Ai fini di questa riflessione presenta un interesse più immediato la seconda conseguenza: la relazione tra le due vie della teodicea. L’insistenza sulla necessità di completare la via breve, parando con la via lunga gli attacchi dal versante logico, sembrerebbe sminuirne l’importanza.
In realtà la eleva al suo vertice perché, liberando l’affidamento dall’ombra insidiosa del sospetto, permette di viverla in modo netto e del tutto sicuro. Ma le restituisce anche, in definitiva, il primato davanti al registro logico.

Ciò è di straordinaria importanza, perché ha una portata generale. Dal momento che il male giunge a toccare le radici stesse dell’esistenza, quando la crisi si fa pressante l’affidamento può trasformarsi in una vera ancora di salvezza. È allora che è più potente della logica di carta, come la chiamava John Henry Newman.

Da parte mia, se per un’assurda ipotesi mi trovassi a mettere in gioco la mia vita dovendo scegliere tra il teorema di Pitagora e l’amore di mia madre o di mio padre, non ci metterei un secondo a ricorrere all’affidamento all’amore. Per lo stesso motivo il ricorso alla croce è sempre stato l’ultimo rifugio nelle situazioni più disperate. E può continuare a esserlo a maggior ragione, se davvero si può vivere l’affidamento nel suo autentico significato.

L’«ultima lezione» di Gesù

Il che ci invita a contemplare nuovamente il profondissimo senso del ricorso alla croce, per riaffermare la sua autentica capacità di consolazione e di fondata speranza. Oggi siamo in presenza di una diffusa tendenza teologica a porre il centro della rivelazione cristiana nel mistero della passione e risurrezione del Signore, come se da esso dipendesse tutta la mediazione salvifica di Gesù. Tuttavia, anche senza la minima intenzione di sminuirne l’importanza, si può fraintendere il suo senso, mettendo in pericolo l’esemplarità realmente umana della croce.

Per comprenderlo è sufficiente considerare un’ipotesi irreale, ma storicamente possibile: domandarsi cioè cosa sarebbe successo se Gesù di Nazaret, dopo aver trascorso la sua vita annunciando e vivendo il Vangelo, fosse morto di morte naturale nel suo letto. La sua rivelazione ci sarebbe stata, in lui vi sarebbe stato il culmine della storia della salvezza? Potremmo continuare a credere che vedere lui è vedere il Padre? Soprattutto, l’insistenza sul carattere extra-ordinario e fisicamente miracoloso di ciò che è successo non ci consentirebbe ugualmente la comprensione del carattere reale e veramente umano del suo durissimo scontro con la sofferenza e il male? Infine, se la sua crocifissione fosse stata «mandata da Dio» (nel senso, che abbiamo criticato, che Dio «avrebbe potuto evitarla»), non si ripresenterebbe forse, massimamente amplificata, la sfida del dilemma di Epicuro?

Anche qui tutto cambia se si vede Gesù combattere, alla pari di noi, con il problema del male nel suo duplice volto di una terribile sofferenza fisica e di un’incomprensibile ingiustizia umana verso colui che «passò beneficando». Perché in tal modo comprendiamo ancor meglio quello che già intuivamo meditando la preghiera nel Getsemani. La sua tradizione religiosa, imbevuta dall’idea dell’interventismo divino, di sicuro non gli consentiva di superare l’obiezione secondo il registro della logica astratta.

Tuttavia, malgrado esso, egli riuscì a serbare così a fondo la sua convinzione dell’amore di Dio e la sua irremovibile decisione di restargli fedele da poter vivere quella spaventosa crisi poggiandosi sul registro dell’affidamento.

I Vangeli, anche in questo caso attraverso «preghiere teologiche», sono riusciti a interpretare e a esprimere simbolicamente quella che ho osato chiamare «l’ultima lezione» appresa da Gesù sulla via della sua esperienza rivelatrice. Malgrado i loro limiti culturali, gli evangelisti sinottici, più realisti e meno timorosi dell’attuale teologia, riconoscono la crisi nel grido finale che Marco e Matteo pongono sulle labbra di Gesù: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»; ma anche la superano, nell’espressione più sublime di una preghiera fatta di una speranza contro ogni speranza: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Perciò mi sono permesso anche di scrivere che la crocifissione fu una terribile sfortuna per Gesù, ma una fortuna impagabile per noi. Perché, grazie al fatto che egli fu capace di vivere nell’affidamento quella situazione estrema nella quale tutto sembrava che parlasse di abbandono da parte di Dio, noi possiamo essere sicuri che non esiste situazione umana che possa essere tradotta in abbandono da parte di Dio e che, pertanto, possa mettere in dubbio la possibilità di un affidamento totale, definitivo e senza alcuna pecca.

Paolo di Tarso ha saputo comprenderlo meglio dei teologi che, incomprensibilmente, ancora oggi continuano a parlare di abbandono reale da parte del Padre. L’Apostolo, che conosceva le crisi e le ingiustizie, le flagellazioni e i pericoli di morte, l’ha compreso e l’ha espresso in uno dei passi più profondi di tutta la Bibbia. Vale la pena riascoltarlo in questo tempo di angoscia, di sofferenza e di interrogativi: «Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,37-39).

Il Regno, Andrés Torres Queiruga*

* Il testo «Orar en tiempos de coronavirus» è apparso in due puntate sulla rivista on-line Religión digital (14.4 e 20.4, https://bit.ly/2Z6JrbI e https://bit.ly/35THvF6); ringraziamo il direttore per la gentile concessione; nostra traduzione dallo spagnolo.

1 Cf. concilio Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel modo contemporaneo, 7.12.1965, n. 22; EV 1/1385.

2 Francesco, esortazione apostolica Gaudete et exsultate sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, 19.3.2018, n. 154; Regno-doc. 9,2018,287.

3 J.M. Bergoglio, Mente abierta, corazón creyente, Claretianas, Buenos Aires 2013, 20.

4 F. Prado Ayuso, No podemos dejar de respirar. Raíces espirituales
y magisterio sobre la oración en el papa Francisco
, Claretianas, Barcelo-
na 2020.

5 Francesco, Angelus, 20.10.2013.

6 Francesco, Angelus, 24.7.2016.

7 Y. Congar, La mia parrocchia vasto mondo, Paoline, Roma 1963.

8 J. Martin, «Where Is God in a Pandemic?», in The New York Times, 22 marzo 2020.