Una riflessione del Direttore della Facoltà teologica di Torino don Roberto Repole sul tempo di dolore e difficoltà causati dalla pandemia. «Ci è impossibile celebrare insieme l’Eucaristia, ma non ci è impossibile santificare quel tempo»
«Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo», dice il Sapiente in un antico libro della Bibbia. C’è «un tempo per piangere e un tempo per ridere… un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci». Ciò che ci è chiesto è di comprendere quale tempo si stia abitando. Qualcosa di vero sempre, che diventa indispensabile in alcuni frangenti della storia. Specie quelli in cui si tratta di vedere, senza dabbenaggine, che si è alle prese con un momento straordinario.
Potrà sembrare strano, ma quello che fatichiamo a interiorizzare in questi giorni amari, come cittadini e come credenti, è che siamo alle prese con un tempo non più normale. Non è normale vedersi portare via il padre ammalato su un’ambulanza senza poterlo abbracciare, confortare, accudire, nell’incertezza straziante di poterlo ancora rivedere. Non è normale che in una città moderna del 2020 sfilino i carri dell’esercito per trasportare decine di bare in attesa di sepoltura, in una solitudine agghiacciante. Non è normale non potersi più fidare dell’altro né di sé stessi, perché non si sa chi dei due possa essere letale. No: tutto questo non è normale! Dobbiamo vederlo e dircelo. E possiamo anche scrivere, colorare e convincerci che «andrà tutto bene». Facciamolo, per carità, se serve a farci forza e a trovare stimoli per poter resistere e non soccombere. Forse abbiamo addirittura il dovere di farlo, per preservare i più piccoli e indifesi dalla pesantezza che si è abbattuta sui nostri cuori.
Ma sarebbe bene non negarci la realtà. Non andrà tutto bene per le centinaia di vittime di cui ci viene dato l’annuncio ogni sera, come in un bollettino di guerra, né per le famiglie che quei morti li piangono. E non andrà tutto bene neppure per chi sopravvivrà. Perché ormai dovrebbe essere evidente a tutti: la normalità a cui ritorneremo non sarà semplicemente identica a quella che si è interrotta qualche settimana fa.
Ciò che è certo è che in un momento così anormale, non si può continuare a vivere come se tutto fosse semplicemente normale. Sarebbe insipiente e distruttivo. Nella vita sociale siamo stati chiamati a rinunciare a molte delle realtà che ci sono normalmente necessarie. Lo ha detto bene il premier Giuseppe Conte: dobbiamo astenerci dagli abbracci, in questo momento, se vogliamo tornare ad abbracciarci ancora, come è normale che sia.
Lo stesso sta accadendo nella comunità cristiana. Abbiamo dovuto interrompere i ritmi della nostra vita comunitaria. Siamo chiamati a vivere la mancanza straziante dell’Eucaristia domenicale. Siamo ormai consapevoli che non celebreremo in modo naturale la Domenica delle Palme e soprattutto la Pasqua, cuore e centro della fede in Cristo. Ciò che stupisce è che si possa ragionare di queste oggettive mancanze, come se non ci trovassimo in una situazione eccezionale. Fa pensare che si sia potuto dire che la Chiesa, specie nei suoi preti, stia mostrando paura e indebita sottomissione nell’accettare queste restrizioni.
È vero, nella normalità non possiamo vivere senza quel pane spezzato della Domenica. È quella Eucaristia la nostra sorgente. Abbiamo necessità di ascoltare insieme la Parola di Dio, di nutrirci insieme della carne di Cristo, di toccarci e sperimentare in quel tocco che siamo fratelli in cui scorre la medesima vita. E questo semplicemente perché tutto nel cristianesimo ha a che fare con la concretezza della carne. «La carne è il cardine della salvezza», diceva Tertulliano. Ma si può semplicemente continuare a fare tutto come prima, quando proprio quella carne è ammalata e portatrice di malattia? Si possono celebrare i gesti della fede, che portano la salvezza, con il dubbio atroce che possano invece essere portatori di morte? Sarebbe coraggio quello di preti che, pur in modo generoso, continuassero ad incontrare le persone come se niente fosse, con il pericolo di contagiare e far contagiare decine e centinaia di persone?
Forse solo se si conserva un’idea “soprannaturalistica” della salvezza, che non avrebbe nulla a che fare con la concretezza delle nostre vite. E forse solo se si professa una fede che non può tener conto dei dati che ci fornisce la scienza e, dunque, di un aspetto rilevante della modernità. Probabilmente non è di coraggio che abbiamo bisogno in questo momento. Forse abbiamo necessità di visione. Quella che ci serve per riconoscere che alcune oggettive mancanze possono rappresentare oggi una pienezza e alcuni oggettivi silenzi possono diventare parole. Ci serve visione come Chiesa per aiutarci a riscoprire che la festa non si riduce al precetto domenicale. Ci è impossibile celebrare insieme l’Eucaristia, ma non ci è impossibile santificare quel tempo, come segno che la nostra vita non viene da noi, che non siamo all’origine di noi stessi e del mondo. Ci serve visione per aiutarci a vedere finalmente che siamo impastati della stessa umanità di tutti, che in questi giorni prova paura, sconcerto, rabbia, dolore.
Non siamo degli alieni in questo mondo. Se una specificità abbiamo – e non ci è tolta neppure in queste ore – è di far diventare quei sentimenti invocazione, preghiera, persino grido. Serve visione per far crescere la fiducia che Cristo è Vivente anche oggi e può parlare, attraverso il silenzio di questi giorni, nella vita di ciascuno. La stessa che può aiutarci a non fuggire troppo frettolosamente il senso di precarietà e impotenza che ci ha assalito, perché forse è proprio da lì che potrà emergere per la società e per la Chiesa qualcosa di inedito. E soprattutto serve visione per riconoscere che mai come in questo momento abbiamo la possibilità di annunciare come cristiani quel che troppo spesso taciamo: Cristo è risorto e solo nella speranza di una vita che sconfigge la morte, possiamo davvero dire che «andrà tutto bene».
Si può essere certi che questa è la forza di molti tra quanti, medici e infermieri, mettono a repentaglio la loro vita per salvare quella altrui; di molti cristiani comuni che sprigionano tutta la loro creatività per non lasciare solo chi lo è già fin troppo in tempo di normalità; o di quel prete di Bergamo che avrebbe volentieri rinunciato ad essere curato purché potesse beneficiare delle cure un uomo più giovane di lui.
Se in tempi di anormalità dobbiamo cercare dove si trova la Chiesa e quale sia il senso dell’Eucaristia che ci manca è soprattutto lì che dobbiamo guardare.
La Stampa, 2 aprile 2020