«Vorrei imparare a credere»

“Se uno ha risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze”. (Papa Francesco, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, Rizzoli, Milano 2013, pp. 97.)

«Ci eravamo posti molto semplicemente la domanda di che cosa volessimo effettivamente fare della nostra vita. Egli disse: vorrei diventare un santo – e credo possibile che lo sia diventato -; la cosa a quel tempo mi fece una forte impressione. Tuttavia lo contraddissi, e risposi press’a poco: io vorrei imparare a credere».

È un passaggio di una lettera che Dietrich Bonhoeffer scrisse il 21 luglio 1944 all’amico Eberhard Bethge,[1] riferendogli di una discussione avuta, durante il soggiorno all’Union Theological Seminary di New York (settembre 1930-giugno 1931), con il pastore francese Jean Lassere.
Il bonhoefferiano programma di vita «io vorrei imparare a credere» mi è tornato in mente durante e al termine della lettura di Incredulità, edito nei mesi scorsi da Cittadella Editrice.[2]
L’autore, Francesco Cosentino, docente di teologia fondamentale presso la Gregoriana, già in passato ci ha regalato stimolanti riflessioni[3] sul «dire Dio» nella postmodernità, evidenziando la necessità e l’urgenza di purificarne le immagini. Egli, infatti, è «fermamente convinto che la banalizzazione del nome di Dio e l’uso che ne fanno molti cristiani e molte Chiese resta uno dei motivi scatenanti dell’ateismo contemporaneo o almeno di una reazione negativa nei confronti della fede cristiana» (p. 8).[4]

Incredulità: una parola della fede

Il nuovo libro del prof. Cosentino affronta, con un linguaggio chiaro e accessibile anche a chi non è teologo, una tematica di grande pregnanza e attualità.
Esso è inserito nella Collana della Cittadella “Le parole della fede”, curata da Giovanni Ancona, Giacomo Canobbio e Armando Matteo.
Il che sta immediatamente a significare che «fede e incredulità si toccano» (p. 5). «C’è un incredulo dentro ogni credente» (p. 8). Anche il credente più convinto è consapevole di essere come sospeso tra la luce della fede e la penombra del dubbio. «Il cammino della fede viaggia sempre nella semioscurità» (p. 14). La poca fede o incredulità è esperienza costitutiva anche del discepolo (p. 39).

Il rapporto dialettico tra fede e incredulità è una conseguenza del mistero dell’Incarnazione che ci ricorda la paradossalità del cristianesimo: parlare di Dio vuol dire sempre parlare dell’umano e all’umano. Parlare di Dio vuol dire parlare dei sogni, dei desideri, delle fragilità, delle contraddizioni e della inquietudine dell’essere umano: «e, quindi, anche della sua incredulità» (p. 7).

L’affascinante viaggio di Francesco Cosentino sulle strade dell’incredulità come parola della fede si snoda in tre tappe fondamentali, che costituiscono i tre capitoli del libro. La relazione tra fede e incredulità viene illustrata da un punto di vista biblico (capitolo primo), storico-filosofico (capitolo secondo) ed esistenziale-pastorale (capitolo terzo).

L’incredulità nella sacra Scrittura

Le Scritture sacre ebraiche e cristiane prospettano un approccio non superficiale al tema della relazione tra fede e incredulità. Il Dio della Rivelazione, anche quando si mette amorevolmente sulle tracce degli umani per dialogare con loro, rimane un Dio totalmente altro e un Dio nascosto.

Nel divieto delle Scritture ebraiche di farsi immagini di Dio[5] è contenuto un implicito invito a guardare oltre, ad aprire il cuore verso un affidamento che trascende il sensibile e l’immediato, a riconoscere l’ineffabilità del mistero di Dio, che si rifiuta di dare il proprio nome a Mosè[6] e di farsi vedere in faccia. Contemporaneamente, però, tramite Mosè, si rivela come il Dio della compassione e della condivisione, della vicinanza e della storia (p. 16-17) che «vede» e «conosce»[7] le sofferenze degli umani e scende dall’alto della sua trascendenza per sostenerli nel loro cammino verso la libertà, la responsabilità e la consapevolezza.
Quanto alle Scritture cristiane, il Vangelo, pur rappresentando la rivelazione massima e definitiva di Dio perché si identifica con la vicenda umana di Gesù di Nazaret, «accoglie in se stesso la matrice ebraica del discorso sulla trascendenza e ineffabilità di Dio» (p. 17).

Particolarmente interessanti le considerazioni dell’autore in tema di incredulità intesa come idolatria: tema ricorrente nella Scrittura e in ogni esperienza religiosa, che sta a testimoniare la fatica del cuore umano a «dover sopportare e gestire la distanze e la diversità di Dio» (p. 23).

L’idolatria sostituisce il Dio vivo e vero di Israele e di Gesù Cristo con un dio rassicurante e deresponsabilizzante, invocato per giustificare le pigrizie interiori o per legittimare le convinzioni intellettuali (p. 26).
Passare dall’idolo a Dio significa passare da un dio che acquieta e narcotizza le coscienze al Dio che inquieta e responsabilizza. «Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cf. Es 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro o nella dittatura di un’economia senza volto e senza uno scopo veramente umano».[8]

L’incredulità nel percorso storico-filosofico

Nel secondo capitolo viene presentata una lunga disamina della parola “incredulità” nelle varie forme di ateismo.
Nei confronti dell’ateismo, inteso come sistema filosofico di pensiero ben organizzato e strutturato Cosentino si pone in termini rispettosi e dialoganti (pp. 48-85). Con riferimento alla critica del cristianesimo proposta da atei rigorosi della modernità come Feuerbach, Marx, Freud o Nietzsche, egli evidenzia come essa sia stata e continui ad essere capace di sfidare la fede cristiana su molti aspetti e di lanciare provocazioni in merito all’annuncio di un Dio spesso presentato a discapito dell’umanità (p. 72), ovvero del desiderio di una vita più libera e più felice (p. 77) e, ancora, della gioia in generale (p. 82).

L’autore si sofferma poi su quella forma di incredulità che oggi ha assunto la caratteristica di indifferenza religiosa. La cifra predominante della postmodernità sembra essere una vita che si congeda dalle «grandi narrazioni», che non ha grandi passioni e ideali, sogni e utopie, ma che spesso è appiattita nell’apatia, nella rassegnazione, nella banalità del quotidiano e nella venerazione degli idoli del consumismo e del divertimento (pp. 86-91). A differenza dell’ateismo radicale, «l’indifferenza semplicemente non si inquieta e non dà al problema religioso nessun tipo di rilevanza e considerazione. È questa una sfida dei nostri giorni, che il cristianesimo e la Chiesa non possono eludere» (p. 91).

Quanto alle forme contemporanee di neo-ateismo, che si muove su un terreno polemico e aggressivo, quasi burlesco e goliardico, talvolta violentemente anticlericale e stancamente sloganistico (pp. 91-97), il giudizio di Francesco Cosentino è decisamente tranchant: «il nuovo ateismo sembra volersi defilare da ogni possibilità di dialogo, preferendo abbracciare argomenti talvolta per nulla nuovi, sostenendoli con spirito controvertista per elevare lo scontro e sbeffeggiare chiunque la pensi diversamente. Spesso gli argomenti di questo nuovo ateismo si presentano sotto la forma di pura banalità, avvitati su se stessi e completamente chiusi… al confronto, scivolando così verso una qualità intellettuale piuttosto bassa» (p. 97).

L’incredulità come sfida per il cristianesimo di oggi

Convinzione profonda del docente di teologia fondamentale della Gregoriana, già esplicitata in altri suoi precedenti scritti, è che, in molte forme di ateismo o di indifferenza religiosa, si faccia riferimento ad un dio ostile, tirannico, opprimente, «tappabuchi», sostanzialmente anti-umano. È lo stesso dio che anche i cristiani rifiutano (o devono rifiutare), per aprirsi con stupore al vero volto di Dio rivelato dal Signore Gesù.[9]

Il terzo capitolo del saggio offre spunti di grande attualità sui cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni e sulle possibilità di un’evangelizzazione sempre “nuova” in grado di nutrire le domande e i desideri degli uomini e delle donne della contemporaneità e di «risvegliare la domanda su Dio» (p. 110). Lo fa, valorizzando la ricca tradizione teologica del Novecento – da Edward Schillebeecks a Karl Rahner, da Johann Baptist Metz a Henri de Lubac – che ha messo in luce il carattere di provocazione che l’incredulità pone al cristianesimo, tentando, contemporaneamente, di far emergere la bellezza dell’Evangelo come progetto di piena umanizzazione (p.103).
Se la cultura secolare post-moderna ha profondamente cambiato l’immagine di uomo e di mondo, occorre anche una nuova immagine di Dio e di Chiesa.

«La relazione tra fede e incredulità ha bisogno di collocarsi nel rapporto fede/cultura finalmente inteso evangelicamente: stare nel mondo con simpatia e con spirito di discernimento critico-profetico» (p. 100).
Il che comporta, per ogni comunità credente, di stare nella complessità della postmodernità senza subirla, di stare nei conflitti senza esorcizzarli con risposte di comodo, di stare nell’ambiguità senza rifiutarla (p. 100); contribuendo così a creare le disposizioni perché l’Evangelo sia ascoltato e recepito come tale – cioè come lieto e coinvolgente annuncio di Gesù di Nazaret – anche dalle donne e dagli uomini di oggi. «La Chiesa intende annunciare che la fede in Cristo è occasione e possibilità liberante per la qualità dell’esistenza umana e delle sue relazioni interumane; non si tratta allora di una trasmissione di semplici contenuti, di astratte verità o di comandamenti da osservare, ma dell’iniziazione a quell’incontro personale con Dio (corsivo dell’autore, ndr), che inaugura una nuova qualità delle relazioni con se stessi e con gli altri, diventando così arte di vivere e possibilità, per l’esistenza, di riuscire in modo veramente umano» (p. 146).

In quanto parola della fede, dunque, l’incredulità è «parola critica che saggia al fuoco la fede e, paradossalmente, può renderla profetica e inquieta, tanto da aprire una breccia nel dubbio di chi ancora non ne ha varcato la soglia» (p. 167).

Andrea Lebra

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[1] Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, Editrice Queriniana, Brescia 2002, pag. 504.
[2] Francesco Cosentino, Incredulità, Cittadella Editrice, Assisi 2017.
[3] Francesco Cosentino, Un Dio possibile. Cristianesimo, immaginazione e “morte di Dio”, Cittadella Editrice, Assisi 2009; Id, Immaginare Dio. Provocazioni postmoderne al cristianesimo, Cittadella Editrice, Assisi 2010; Id., Il Dio in cammino. La rivelazione di Dio tra dono e chiamata, Editore Tau Editrice, Todi 2011; Id., Sui sentieri di Dio. Mappe della nuova evangelizzazione, Edizioni San Paolo, Cinisello B. (MI) 2012. Cf. Settimana n. 18 del 5 maggio 2013, Un Dio che sa danzare.
[4] Come ricorda la Gaudium et spes, n. 19: «Nella genesi dell’ateismo possono contribuire non poco i credenti nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (GS 19).
[5] Es 20,1-4.
[6] Es 3,13-15.
[7] Es 3,7.
[8] Papa Francesco, Evangelii gaudium n. 35.
[9] Gv 1,18 («Dio nessuno l’ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato») e Gv 14,8 («Chi ha visto me ha visto il Padre»).