Gv 9, 1-41

Uscito dal tempio di Gerusalemme Gesù vede nei pressi della piscina di Siloe un uomo cieco fin dalla nascita, un uomo bisognoso di salvezza. Non avviene, come tante altre volte, che il malato invochi Gesù e gli chieda la guarigione, ma è Gesù che si avvicina. I discepoli che sono con lui, come tutti gli ebrei del tempo, vedono questo cieco e associano in modo automatico malattia e peccato: la cecità è una punizione divina per il suo peccato! Per questo chiedono a Gesù: “Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”.

Gesù, non vede il peccato ma la sofferenza e il grido di aiuto in essa presente, il suo è uno sguardo completamente opposto a quello colpevolizzante dei discepoli, uno sguardo pieno di amore, di interesse per la sofferenza umana che fa nascere in lui il desiderio di curare e di guarire.

Di fronte al male, soprattutto noi credenti, cerchiamo una spiegazione, vogliamo individuare la colpa e il colpevole. Gesù invece rifiuta questo sguardo, non propone alcuna spiegazione a quella cecità e con una reazione di umanissima compassione si avvicina al cieco, impasta della terra con la sua saliva e la spalma sugli occhi del cieco. Non è un gesto di magia, ma un gesto carico di umanità: l’uomo non vedente si sente toccato da Gesù, sente le sue dita e il fango sui propri occhi, sente di poter mettere fiducia in chi lo ha “visto” nella sua sofferenza e lo ha riconosciuto come una persona nel bisogno.

Dopo che il cieco è stato guarito si scatena un processo contro Gesù perché ha guarito in giorno di sabato, giorno consacrato al Signore, in cui non è lecito “lavorare”. La pretesa dei farisei, esperti delle Scritture, è quella di “sapere”, di conoscere la tradizione alla quale bisogna essere fedeli… ma questa conoscenza impedisce loro di riconoscere la “novità”, la verità.

Alla fine il cieco, coinvolto in questa diatriba, riconosce di fronte a loro Gesù quale Messia e per questo viene cacciato fuori dalla comunità di coloro che osservano fedelmente la Legge.

Saputo che quell’uomo è stato espulso dalla sinagoga, Gesù lo va a cercare e, trovatolo, gli pone una domanda, da cui nasce il dialogo che costituisce il vertice di questa pagina evangelica:

– “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”. – “E chi è, Signore, perché io creda in lui?”. – “Lo hai visto: è colui che parla con te”. – “Credo, Signore!”. E si prostrò davanti a lui.

Ecco l’approdo alla fede: l’uomo chiamato Gesù, è il Kýrios, il Signore! Gesù allora, conosciuta questa fede, dice ad alta voce: “Io sono venuto in questo mondo perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. I piani si ribaltano, si capovolgono: il cieco riacquista la vista, invece chi pensa di vederci si accorge di essere sprofondato nelle tenebre più oscure.

Non resta che chiederci: anche noi siamo dei ciechi nella fede? Crediamo di vedere e invece non riconosciamo chi è la vera Luce?

Da “Dio esiste, io l’ho incontrato” di André Frossard

È l’otto luglio. Una magnifica estate. I miei pensieri? Non me ne ricordo. Il mio stato interiore? Perfetto, per quanto concerne la mia coscienza: cioè senza alcuno di quei turbamenti che si vuole predispongano al misticismo.
Nessuna preoccupazione amorosa. Per la sera ho un appuntamento con una tedeschina di Belle Arti, bionda, i tratti delicati, che mi ha dato da sperare in una moderata difesa delle sue frontiere.

Ateo tranquillo, entro per caso in una cappella, non particolarmente esaltante. Il fondo della cappella è illuminato di vivida luce. Sopra l’altare maggiore con la tovaglia bianca, un ampio apparato di piante, candelabri ed ornamentazioni è dominato da una grande croce di metallo lavorato che porta in centro un disco d’un bianco smorto. Ignoro di trovarmi di fronte al Santissimo Sacramento. Il mio sguardo passa dall’ombra alla luce, va dai fedeli alle religiose immobili, dalle religiose all’altare, poi non so perché, si ferma sulla seconda candela che brucia a sinistra della croce.

Mi vengono suggerite queste parole: vita spirituale.

Non dette, e neppure formate da me stesso: sentite come se fossero pronunciate da una persona che veda ciò che io non vedo ancora.

Non dico che il cielo si apre: non si apre, si slancia, s’innalza d’improvviso, silenziosa folgorazione, da quella insospettabile cappella nella quale si trovava misteriosamente rinchiuso. C’è un ordine, nell’universo, ed alla sommità, al di là di questo velo di nebbia risplendente, l’evidenza di Dio, l’evidenza fatta presenza e l’evidenza fatta persona di colui che un istante prima avrei negato, colui che i cristiani chiamano «padre nostro», e del quale sento tutta la dolcezza, una dolcezza diversa da tutte le altre, che non è la qualità passiva designata talvolta sotto questo nome, ma una dolcezza attiva, sconvolgente, al di là di ogni violenza, capace di infrangere la pietra più dura e, più duro della pietra, il cuore umano.

Con le parole di Veronica

Mi pareva vedere una gran luce e da essa sentivo come una voce che diceva: Io sono la luce del mondo; e si dilatava e stendeva sempre più: non vedevo altro che luce.
Ma non posso far capire come fosse tutto ciò, perché non trovo somiglianza nessuna: il sole materiale sembra tenebre al pari di questa.