Fede al femminile. Maria Ignazia Angelini: «Quella voce viva nel silenzio»

«Ci sono donne che parlano nella Chiesa odierna: la voce che nasce dal “patire Dio” o – che in radice è il medesimo – dal patire il dolore umano, non resta senza ascolto. Alcune, poi, dicono ovvietà convinte che sia rassicurante, in un’epoca così minacciata di disorientamento; oppure per compiacere e custodire un assetto che ritengono protettivo. Altre si fanno imprenditrici di nuove formule vincenti di comunicazione, che fanno colpo, ma rimangono nel “già detto”. Altre intuiscono la svolta epocale, e silenziosamente cercano nuove narrazioni dell’umano a partire dalle radici, dall’origine; annodano legami ricchi di senso, intessono una rete di ravvivata comunicazione, nuova perché radicata nelle antiche originarie parole di cui il Vangelo è sorgente. Per intendere questa voce di donne, che cerca nella notte di un’epoca complessa e stanca i presagi dell’aurora, è necessario avere orecchio, che non sempre gli ambiti ecclesiali riescono a offrire o a promuovere». Parla con franchezza disarmante madre Ignazia Angelini, badessa del monastero benedettino di Viboldone.

Tra le sante, quali le sembrano parlare alle donne di oggi?

«Ho la netta percezione che le donne delle nostre generazioni contemporanee abbiano bisogno di ritrovare il dialogo diretto con le sante dei secoli passati, oltre il velo della interpretazione recepita, al maschile, che – filtrandone la forza propria e racchiudendola in categorie prefissate e note – ne ha ridotto la risonanza innovatrice e la forza vitale a simbolo di una cultura in declino, ancor prima di essere comprese. Penso all’attualità di Lidia, donna di gratuità semplicissima, che è con la sua marginale e incisiva presenza accanto a Paolo all’origine dell’evangelizzazione dell’Europa; alle prime martiri Perpetua e Felicita; a Sincletica, eloquente nella sua debolezza; a Macrina, al fine umorismo di Scolastica – la donna-simbolo che “più ha potuto perché più ha amato”. Penso a Chiara, Ildegarda, Geltrude, Caterina, ma anche ad Annalena Tonelli, Madeleine Delbrel, Simone Weil. All’anonima donna irachena esposta per la sua fede. Persone la cui voce è un mormorio leggero, dai margini, mischiate alla comune umanità, la cui fecondità è legata alla sensibilità dell’orecchio, allo sguardo del cuore capaci di abitare nei luoghi marginali cogliendovi il bagliore di tempi irrevocabilmente nuovi, imbevuti di Vangelo ma bisognosi di aiuto per liberare la grazia in essi custodita. Nessuna donna segnata dalla ricerca di Dio è senza voce. Bisogna però considerare che, di molte, la voce ci giunge filtrata da interpreti maschi che facilmente vi sovrappongono la propria idea e così manipolano l’originaria empatia. Le donne sanno cogliere nel frammento il simbolo dell’universo, e questo fa ricco ma vulnerabilissimo il suono della loro voce. Di ciascuna occorre riscoprire la voce viva».

A suo parere, la vita monastica femminile ha smarrito elementi preziosi? Di quali, invece, si è arricchita? 

«La vita monastica declinata al femminile è nata all’ombra di quella maschile e per lungo tempo si è universalmente ritenuto che dovesse stare lì, protetta da regole. In questa marcia forzata ha perso tante energie buone. Ma la sua forza e ricchezza è anzitutto nel silenzio che ascolta: forse ha perduto quel silenzio che è ascolto della Parola. Ma dove ha custodito questo silenzio fecondo, la vita monastica femminile s’è fatta scrigno per la gratuita forza di innovare, scavalcando mitemente – e con vena umoristica, se penso anzitutto al riso di santa Scolastica, alla libertà di Ildegarda – ogni dominazione attraverso un’affezione pura e intensa. I ministeri non codificati delle donne monache nella Chiesa sono miriadi: la capacità di intercedere, di narrare storie ricche di senso e di intessere legami, di prendersi cura e guarire, di custodire ogni traccia di vita, di intuire tramite empatia armonie nascoste e tenaci, ha permesso loro di esprimere una parola, a volte decisiva, nella storia della Chiesa e dell’umanità. Oggi mi pare che le monache fatichino a far udire la propria voce, un po’ soffocata dagli stereotipi; forse devono, insieme, ritrovarla: anzitutto voce di gratuità e di domande feconde, fuori di ogni idealizzazione prefissata e semplicemente esponendosi alla potenza del Vangelo. Ricomprendersi oggi come donne in preghiera è una sfida alta. La cosiddetta clausura è – per fare un esempio a me molto caro – un linguaggio che per sé parla di Vangelo a quanti vivono in reclusione. L’unificazione del cuore (attinta tramite la lotta dei pensieri cattivi, lotta ai moti di auto specchiamento, all’unico Vangelo), dinamismo proprio della vita monastica, oggi richiede con urgenza di essere riproposta come empatia, consapevole esposizione al dialogo entro la cultura della frammentazione, della complessità, della precarietà. Così comprendo il richiamo insistente di papa Francesco -–anche e in modo perentorio alle monache – a comprendersi come “donne in uscita”…».

Cosa testimoniano le claustrali a una società convulsa e ipertecnologica?

«Oggettivamente, pensando alla nostra storia nella Chiesa locale, dico: il monastero alle porte della grande città annuncia che, appunto, c’è una soglia “altra” da varcare. Uscire dalla mondanità, anche quella spirituale. Entrare nella casa di Dio, casa di preghiera, casa a tutti semplicemente ospitale, casa il cui recinto (“clausura”) ha il solo significato di delineare una porta attraverso cui, umilmente entrando, ci si incontra. Ci si riconosce da sempre amati».

Che cosa cerca chi bussa alla porta del vostro parlatorio?

«Ascolto. Attenzione. Cuore. Respiro. Limpidità di una evangelica parola “vicina”, confermata dalla trasparenza della vita fraterna. A volte cerca eccezionalità, rapporti elitari, esperienza estetizzante, il vuoto come condizione per la ricerca di sé, prodotti gastronomici o per la fitness: ma ha sbagliato indirizzo».
Quali segni di appartenenza esclusiva a Dio (dal velo all’abito) comunicano il senso della vostra scelta?
«Nessun segno esteriore per sé è inequivoco e parla senza un corpo vivente, uno sguardo che lo interpreti: solo se confermato dallo sguardo limpido del cuore veramente appartenente a Dio, e dalla fraternità sobria circolante fra di noi. Forse, parla il luogo che abitiamo stabilmente, imbevuto della preghiera di generazioni e della bellezza semplicissima di un’arte povera».

Quale “fascino” esercita la vostra vita su chi vuole entrare in monastero?

«L’attrazione della casa di preghiera per tutti i popoli. L’attrazione di una casa come tutte, laboriosa e ospitale, edificata come fraternità basata sull’ascolto delle Scritture, laboratorio di narrazioni di salvezza sempre ricercate a partire dalla realtà, dalla crisi, dai conflitti. Illusorio è il fascino di donne velate, che nascondendosi attirano gli sguardi. Il fascino di una pace immaginaria, esenzione dalla lotta contro le passioni cattive». 

«Nel silenzio ricevuto come dono, la parola diventa sguardo»: occorre riscoprirlo? 

«“Per te il silenzio è lode”: così inizia il salmo 65. Questo versetto ha attirato, soggiogato ed educato generazioni di monache e monaci. Introducendoli, come soglia benedetta, alla percezione di fede del mistero: di che cosa sia stare dinanzi a Dio rivelatosi in Gesù, il Verbo fatto carne fino al silenzio della fine, allo svuotamento di sé nella morte, spinto da quell’amore “fino alla fine” che lo costituisce Figlio. Silenzio come esperienza della fede è tutt’altro che lo zittire della paura, dell’ignavia, della ipocrisia, dell’astuzia o della stupidità. È grembo del nascere della Parola. Attraverso il consenso corporeo. È come quando si incontra lo sguardo di chi soffre, dell’innocente condannato, di un bambino che ride. Lo sguardo dell’aurora, o il venire della sera: lo spazio del consenso incondizionato al venire della grazia, eccesso che da ogni parte segna il limite delle nostre capacità imprenditoriali e apre lo spazio dell’obbedienza. Tutto il bene della vita richiede anzitutto silenzio».

Laura Badaracchi